L’odierna celebrazione della Giornata dell’Africa ( Africa Day) rappresenta un’occasione per riflettere sul presente e sul futuro di questo immenso continente. La posta in gioco è alta, soprattutto in riferimento ai temi della lotta contro l’esclusione sociale, dunque della promozione dello sviluppo dei popoli afro. D’altronde, il fenomeno migratorio, che tanto preoccupa le cancellerie europee è sintomatico di un malessere rispetto al quale occorre operare un sano discernimento. Era il 25 maggio del 1963, quando nacque, ad Addis Abeba, l’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), progenitrice dell’attuale Unione Africana (Ua). Da allora, il continente è molto cambiato, sebbene il panafricanesimo, così come era stato concepito dai padri fondatori dell’Oua, come il ghanese Kwame N’Krumah, non pare abbia ancora trovato un felice riscontro nella prassi politica.
Per comprendere la lungimiranza del suo pensiero, è sufficiente leggere Africa Must Unite, pubblicato da N’Krumah proprio nel 1963, in cui lo statista africano auspicava «una base politica comune per l’integrazione delle nostre politiche di programmazione economica, di difesa delle relazioni estere e diplomatiche». Gli Stati avrebbero continuato «a esercitare una autorità indipendente, a eccezione di settori definiti e riservati all’azione comune, nell’interesse della sicurezza e dell’ordinato sviluppo dell’intero continente». La determinazione di N’Krumah a realizzare questo 'sogno africano' fu tale che inserì il progetto degli 'Stati Uniti d’Africa' addirittura nella costituzione ghanese.
Purtroppo questo federalismo continentale naufragò per colpa dei movimenti nazionalisti africani. Allorché si presentò la storica opportunità della Conferenza di Addis Abeba nel 1963, i capi di Stato e di governo africani, dopo una lunga discussione, sancirono, come base della nuova unità, il principio del «rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato» (in altre parole nessuno poteva interferire negli affari interni di un Paese, anche in caso di colpi di Stato o dittature), nonché quello dell’«intangibilità delle frontiere» ereditate dal colonialismo, affermando così uno status quo che tuttora pesa sull’intero continente. Nacque così, segnata da una sorta di peccato originale, l’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua).
Sta di fatto che, oggi più che mai, l’Africa ha bisogno di un rinnovato panafricanesimo e dunque di un federalismo continentale. La stessa Unione Africana, nata sulle ceneri dell’Oua, a cavallo tra il 1999 e il 2001 – pur sconfessando il principio di non ingerenza e accettando la costituzione di un nuovo Stato, quello sudsudanese – non è riuscita finora a colmare le lacune di sempre, in termini di autofinanziamento, sostenibilità e coesione.
Purtroppo il federalismo, quando nasce con un forte radicamento col territorio, poco importa se nazionale, regionale o provinciale, parte col piede sbagliato. Una lezione, quella impartita da N’Krumah, che vale non solo per l’Africa, ma anche per la vecchia Europa. Una cosa è certa: per contestare l’emigrazione clandestina, il terrorismo, i traffici illeciti e la corruzione dovremmo tutti comprendere fino in fondo quello che papa Francesco scrive nell’Evangelii gaudium: «Il tutto è superiore alla parte». Una affermazione che è la conseguenza stessa del primato del bene comune.