Missionario in un carro cinema - Archivio Storico di Propaganda Fide, Fondo Fotografico Agenzia Fides
Il cinema missionario, per le sue peculiarità quantitative e qualitative, è capace di mettere in risalto sia i ritardi accumulati sul piano della salvaguardia del patrimonio audiovisivo cattolico sia le enormi potenzialità insite nell’avvio di una coordinata progettualità. Non c’è dubbio infatti che, se guardiamo alla questione cinematografica dal piano prettamente produttivo, i film legati alle missioni siano a oggi il bacino più vasto e capillare di documentazione audiovisiva sulla storia del cattolicesimo novecentesco nella sua dimensione planetaria. Ma si tratta anche di un patrimonio sostanzialmente indefinito, sulla cui reale entità non possiamo affidarci a parametri di riscontro oggettivi. Lo rilevava già Maria Francesca Piredda nel suo volume del 2005 Film & Mission. Per una storia del cinema missionario, una pubblicazione pionieristica. «Addentrarsi nell’universo del cinema missionario – scriveva nell’introduzione – è come approdare in un’isola senza nome di cui è difficile stabilire perimetro e confini certi». E per suffragare la difficoltà di questa impresa si soffermava su un dato di fatto: l’inesistenza, almeno in Italia, di strutture (cineteche o archivi multimediali) adibite alla conservazione e preservazione del patrimonio cinematografico appartenente agli ordini missionari.
Un problema confermato dalle altre incursioni sul tema, molto sporadiche e concentrate prevalentemente sull’area francofona: penso agli studi promossi dal Signis e sviluppati da Guido Convents, o al volume del 2012 Mission et cinéma. Film missionnaires et Missionnaires au cinéma curato dal Cedric (Centre de Recherches et d’Échanges sur la Diffusion et l’Inculturation du Christianisme) di Lione. Negli ultimi vent’anni insomma, con un’accelerazione solo in tempi recentissimi, molti ordini religiosi, almeno in Italia, si siano organizzati autonomamente per la preservazione di questa documentazione audiovisiva affidandosi alle istituzioni nazionali: oggi si conservano fondi sul film delle missioni soprattutto all’Archivio nazionale Cinema Impresa di Ivrea, poi alla Cineteca di Bologna, all’Archivio Storico Luce, alla Cineteca italiana di Milano, al Museo nazionale del cinema di Torino. La preservazione di questa documentazione impone una sfida istituzionale e logistica, i cui contenuti sono riassumibili in questi termini: esiste un patrimonio audiovisivo sulle missioni tanto consistente e diffuso quanto indefinito e fragile, la cui conservazione è affidata alla singola e scoordinata iniziativa e alla “buona volontà” dei vari ordini religiosi, i quali nella maggior parte dei casi non dispongono delle adeguate risorse finanziarie e logistiche e delle competenze professionali per la corretta conservazione e catalogazione di questo patrimonio. Patrimonio che, peraltro, solo raramente è percepito come bene culturale da preservare. Il risultato è che, laddove si trovano le giuste sensibilità, ordini e congregazioni si affidano alle competenze dell’imprenditoria privata o alle provvidenziali supplenze dei sistemi cinetecari pubblici locali o nazionali, ma nei casi peggiori tanta parte di questo materiale versa in cattive condizioni di conservazione oppure è già andato irrimediabilmente distrutto.
Questo quadro impone scelte che, come ha più volte ribadito papa Francesco, appaiono indilazionabili. In primo luogo, appare urgente attivare collaborazioni per procedere a un lavoro quanto più completo di mappatura di questo patrimonio che porti a definire compiutamente il «nome» di quest’«isola » – per riprendere le parole di Piredda – e soprattutto il suo «perimetro » e i suoi «confini». Inoltre, appare sempre più urgente dare concretezza a quella svolta istituzionale che conduca alla costituzione di un ente che funzioni da Archivio centrale per il salvataggio e la conservazione permanente e ordinata secondo i criteri della scienza archivistica di questo patrimonio disperso. Un ente che possa funzionare da centro propulsore e di coordinamento capace di convogliare interessi culturali e pratiche archivistiche e di dettare una linea di indirizzo organizzativo uniforme per il grande patrimonio storico audiovisivo cattolico.
In questi ultimi anni stanno emergendo elementi in grado di rivedere l’attenzione del mondo cattolico verso il cinema, tradizionalmente giudicata come interesse prevalentemente magisteriale e latamente socio-culturale, concretizzandosi soprattutto sul piano educativo e moralizzatore attraverso l’impegno associativo, editoriale, dei cineforum, con le preoccupazioni di revisione e classificazione dei film o dell’esercizio cinematografico. Il concreto apporto dei cattolici all’ambito specifico della produzione cinematografica è sempre apparso come l’anello debole dell’impegno cattolico, con gli entusiasmi nell’epoca del cinema delle origini mai compensati nelle stagioni successive dall’impegno proprio dei missionari – prevalentemente marginalizzato nella categoria di “cinema amatoriale” o “artigianale” – e le sporadiche ambizioni produttive, delimitate in ben precise stagioni, frutto di entusiasmi personali più che di progettualità condivise.
In arte tutto questo è vero se noi guardiamo alla questione dalla prospettiva del cinema commerciale d’intrattenimento: pensiamo alle ambiziose ma fallimentari esperienze della Eidophon International negli anni Trenta e della Orbis e Universalia Film tra guerra e dopoguerra, o alla relativa influenza della San Paolo Film negli anni successivi. Ma se solo spostiamo di poco la prospettiva il panorama cambia. E radicalmente. Qui vengono in aiuto le nuove sensibilità storiografiche che, dopo la svolta impressa dalla new film history e dall’archeologia dei media, ha portato a maturare un’attenzione verso una storia del cinema post-autoriale, chiamata a confrontarsi con oggetti precedentemente esclusi dal campo di osservazione della disciplina. Un cinema “senza nomi”, che chiama a confrontarsi non tanto col cinema dei grandi registi, dei generi cinematografici o delle avanguardie estetiche ma con i cosiddetti usi non entertainment del cinema, vale a dire tutti quelli in cui le immagini in movimento sono state utilizzate per finalità non prettamente spettacolari. Un campo vastissimo, in alcuni studi definito col termine di useful cinema, un cinema, cioè, “utile” in senso estesamente culturale, definito per la sua capacità non tanto di intrattenere quanto di trasmettere idee e convincere individui e produrre soggetti al servizio di obiettivi pubblici e privati.
Se rileggiamo la storia del cinema in questa prospettiva, emerge in tutti i suoi contorni quella industria parallela al cinema dell’intrattenimento commerciale – altrettanto vasta e stabile quanto poco conosciuta e poco studiata – che ha utilizzato il cinema come forma di educazione e informazione proattiva per modellare la condotta e gli stili di vita degli individui facendo leva su desideri, aspirazioni, interessi individuali. Una prospettiva di analisi che dà pieno valore culturale e sociale a tutte quelle tipologie di film e immagini in movimento scarsamente considerati nelle storie del cinema fino a tempi recentissimi (film industriali e pubblicitari, cinegiornali, film di famiglia, film di propaganda o le immagini in movimento utilizzate per finalità specifiche in campo medico, militare o a scopi di sorveglianza pubblica). Se applichiamo questa prospettiva alla storia del rapporto tra il cinema e i cattolici il quadro viene quasi completamente a ribaltarsi. Perché quello che fino a oggi consideravamo l’anello debole della relazione tra cinema e cattolici diviene uno dei punti di forza, aprendo un campo di studi estesissimo. Se infatti usiamo la categoria di useful cinema al campo cattolico notiamo che non esiste probabilmente su scala globale una comunità culturale come quella che si riconosce nella Chiesa di Roma che abbia fatto un uso di una produzione cinematografica e audiovisiva conforme ai suoi scopi tanto diffuso, radicato e ramificato in tutti i continenti.
A inizio anni Trenta, ad esempio, sul tavolo del segretario generale di Propaganda Fide giunsero vari progetti, tutti vagliati attentamente dalla Segreteria di Stato vaticana, che si proponevano di fare del cinema missionario la punta di diamante dell’impegno produttivo dei cattolici: mi riferisco ai progetti della Lux Christiana per una casa di produzione vaticana capace di «mettere il Cinema al servizio delle Missioni e per usare delle Missioni all’elevazione del Cinema», o a quello proposto dalla Cines di Ludovico Toeplitz che proponeva l’istituzione di un «Ente Pontificio per la Cinematografia» con il compito di «mostrare ed esaltare nei paesi cristiani l’opera delle Missioni ». Erano i tempi di grande attivismo che precedettero e seguirono la promulgazione dell’enciclica sul cinema Vigilanti cura (1936). Tempi in cui la personalità più influente di Hollywood, William Hays, a capo della Mppda (Motion Picture Producers and Distributors of America) in un’intervista all’Osservatore Romano aveva invitato le alte gerarchie ecclesiastiche a puntare forte sul fascino dell’esotico che erano in grado di sprigionare le «pellicole missionarie», visto «il grande interesse che popoli lontani, paesaggi selvaggi, abitudini singolari possono esercitare sugli spettatori». Proprio per questo suo spessore storico e questa sua ricchezza semantica e culturale il cinema delle missioni si presta dunque a valorizzare al massimo quel necessario approccio interdisciplinare che le nuove sensibilità storiografiche impongono.