Hanno ragione quanti avvertono che il 'tesoretto' non esiste. E che perciò l’espressione non va usata come «un’arma di distrazione di massa» (vizio tanto dei cronisti quanto dei politici) rispetto a una situazione economica ancora fragile, come notava ieri il
Sole 24ore. O, peggio, utilizzato per qualche politica spot di corto respiro. Ma, proprio perché sono vere tutte le ragioni appena esposte e non parliamo di qualche
una tantum in più, non si può liquidare su due piedi l’ipotesi di destinare – strutturalmente – 1,6 miliardi di euro a un piano nazionale di contrasto alla povertà. Tutto possiamo pensare, infatti, tranne che rispondere per l’ennesima volta: 'non ci sono soldi' o 'non è questa la priorità' di fronte a una platea di 6 milioni di persone in povertà assoluta e per le quali non esiste alcuno strumento di sostegno. Meglio allora evitare gli equivoci e parlare chiaro. Soldi 'sicuri' in più, sbucati da chissà dove, non ce ne sono. La posta da 1,6 miliardi di euro deriva da un maggiore deficit dello 0,1% come differenza tra un 2,6% di rapporto deficit/Pil per il quale ci siamo impegnati con la Ue e un andamento tendenziale che dovrebbe fermarsi al 2,5% grazie a un migliore andamento della crescita economica, lasciando quindi quel piccolo margine. Si tratta ovviamente di previsioni, potenzialmente fallaci, in passato rivelatesi perfino azzardate. Ma stiamo parlando ancora solo del Def, il documento di programmazione, che dovrà essere poi tradotto in realtà con tanto di dettaglio delle spese e delle relative coperture con la legge di Stabilità a fine anno. C’è tempo dunque per soppesare le diverse soluzioni e trovare i fondi necessari
anche a finanziare la lotta alla povertà. A patto, appunto di non escluderla a priori dal campo delle scelte politiche possibili. Perché di questo si tratta: di una scelta politica su come allocare delle risorse. D’altro canto, non è che i 10 miliardi di euro spesi per il bonus fiscale da 80 euro fossero un 'tesoretto' spuntato lo scorso anno. E così pure non lo erano i 9 miliardi di euro destinati a ridurre il peso dell’Irap sulle imprese o altre spese e sconti fiscali via via introdotti. Scelte più o meno felici nel loro esito, più o meno efficaci e necessarie. Quel che invece a noi pare assolutamente necessario –
oggi – è iniziare a costruire un sistema che dia risposta concreta al bisogno di quell’ampia parte della popolazione che «non raggiunge uno standard di vita minimamente accettabile», secondo la definizione con cui l’Istat calcola la povertà assoluta. Su come farlo sono già sul tavolo almeno due proposte. La prima, il Sostegno di inclusione attiva, messa a punto da una commissione di esperti su impulso dell’allora ministro del Lavoro Enrico Giovannini durante il governo Letta. La seconda, simile per filosofia d’intervento, è quella del Reddito d’inclusione sociale, elaborata dall’Alleanza contro la povertà promossa da Caritas, Acli, Forum del Terzo settore, Conferenza delle Regioni, sindacati e un’altra ventina di associazioni. Si tratta di uno strumento universalistico e quindi non limitato ad alcune categorie di lavoratori come ad esempio l’Asdi, il nuovo assegno di disoccupazione su cui punta una parte del Pd. Un mezzo per assicurare ai poveri (assoluti) il raggiungimento di una soglia minima di reddito – 400 euro al mese per una persona sola, rivalutati in base a una scala di equivalenza a seconda dei componenti il nucleo familiare – insieme a una serie di servizi pubblici e del Terzo settore per l’inserimento lavorativo e sociale di chi si trova in difficoltà. Un piano nazionale finalmente strutturale, da completare in quattro anni, con un costo a regime di 7,1 miliardi di euro e un primo impegno di 1,7 miliardi, proprio quello 0,1% di minor deficit/Pil (stimato, per carità) di cui si sta parlando. Se necessario, poi, garanzie e coperture possono essere trovate con riduzioni di spesa o razionalizzazioni fiscali. Ma non si può pensare che l’unica politica non sostenibile, sulla quale non investire, sia sempre e solo quella a favore dei deboli.