mercoledì 22 aprile 2009
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Sono passati già più di quindici giorni dal grande terremoto d’Abruzzo. Quasi trecento morti sotto le macerie sono un evento che segna di dolore la vita di un Paese. Ed è piuttosto logico che adesso si avvii un’indagine per capire le cause e per individuare le responsabilità. Il capo dello Stato ha ricordato giustamente che dietro queste calamità vi è spesso la mancata osservazione di alcune regole fondamentali di convivenza civile, le quali garantiscono, insieme al benessere delle città, la sicurezza degli abitanti. È, perciò, importante capire gli sbagli ed evitare di ripeterli. Ancora più importante, tuttavia, è chiedersi quale sia il significato di queste tragedie, e quale il senso della fragilità che costituisce la nostra vita. L’istinto, infatti, è spesso quello di rimuovere o dimenticare la sofferenza, trovando dei colpevoli. Certo, l’avidità e la bramosia di guadagno sono sempre dei presupposti molto negativi, ma non si può restare chiusi all’interno di un nevrotico bisogno di vendetta, solo per esorcizzare il dolore. Gli antichi massacravano gli untori per liberarsi dall’angoscia insopportabile del male, e noi dobbiamo evitare di aggiungere allo sciacallaggio delle case incustodite quello delle negligenze presunte, attribuite posticce a qualche scellerato di sorta. È bene restare sempre sobri e prudenti, soprattutto in questi casi. L’Italia, d’altronde, ha reagito in modo straordinario all’immane tragedia. L’Italia tutta si è comportata fin dal principio come un grande popolo cristiano. E questo è quanto conta e resta. La risposta dei soccorsi è stata efficace, cominciando dal governo che ha dato prova di pragmatismo e di risolutezza. Anche se il fatto veramente commovente è stato, alla fine, il contegno della gente comune. La mobilitazione collettiva, che fin dalla notte del cataclisma si è attuata dappertutto, ha commosso il mondo intero, perché ha trasformato la sofferenza in speranza. Qualcosa è entrato nel cuore sopito delle persone, nell’anima della nazione, risvegliandone la solidarietà, la partecipazione agli altri, il reale impegno verso il prossimo. Lasciare quello che si ha, mollare quello che si sta facendo, per soccorrere il prossimo in difficoltà, apre degli scenari di umanità che sembravano finora impossibili. In questo senso, per gli italiani non si è trattato soltanto di una brutta catastrofe, ma di un evento che si è inserito con decisione nella storia personale di ciascuno, cambiando le mentalità e riordinando gli ideali di vita di tutti. Il riferimento qui non va solo alle donazioni gratuite, che in due giorni hanno coperto quasi l’intero ammontare dei danni, ma al coinvolgimento diretto che ha spinto tante persone ad abbandonare i propri obiettivi e a darsi interamente agli altri. Solo la consapevolezza chiara di cosa conti veramente nella vita e di cosa possa franare addosso in un momento può spingere ad una carità di questo genere. Alla fine, il sentire profondo dell’Italia cristiana è venuto alla luce in modo esemplare, liberando le persone da quella coltre di cinismo e d’egoismo asfissiante che da tempo rallenta il progresso umano della società. E, al di là del paventato rischio di un’indebita eticità di Stato, si può credere adesso che tra le ceneri del disastro sia apparsa una nuova e fresca linfa di moralità: popolare, personale, addirittura democratica. La visita del Papa in Abruzzo, prevista per il 28 aprile, si presenta quindi come un’occasione propizia, offrendo alle coscienze un momento chiave di raccoglimento spirituale prima di riprendere con speranza la costruzione del futuro perduto. Non si è trattato solo di una catastrofe, ma di un evento che ha cambiato le mentalità e riordinato gli ideali.
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