Nel venerdì santo d’Abruzzo, la morte ha apparecchiato la sua mensa trionfale in quel piazzale disadorno. Duecentocinque bare, neanche tutte quelle delle vittime, ma comunque un colpo d’occhio annichilente davanti alla fredda geometria di una caserma. Duecentocinque bare in fila, ma anche, qualcuna, bianca e piccola, sopra a una bara grande. Assurdamente piccole le bare bianche abbracciate a quelle scure. Bambini morti avvinghiati alla madre, al padre. E ragazzi che un’ora prima di morire avevano scritto su Facebook: bevo una birra alla faccia del terremoto e vado a dormire, a domani. Quella parata alla vigilia della Pasqua, mentre attorno, fra le macerie, fioriscono i peschi, pare una beffa atroce. Una settimana fa questi morti compravano colombe, e uova di cioccolato ai loro bambini. Dov’è ora, sembrava dire quel corteo di feretri, la vostra Pasqua? Dov’è la speranza di una madre sopravvissuta ai suoi figli, di chi ha scavato cercando un fratello, di chi è vivo, ma solo? Davvero la morte ha allestito una grandiosa prova della sua potenza, in quel piazzale ampio e spoglio come un altare – all’orizzonte l’Appennino innevato, impassibile. E l’ha ben visto, il cardinale Bertone, quell'laltare di morte, ha ben sentito il silenzio che tutti in quella piazza sentivano. «Ci inchiniamo – ha esordito – dinanzi all’enigma indecifrabile della morte». Davanti a quelle duecento bare, e a quelle piccole, bianche, la prima reazione umana è tacere, e inchinarsi – come di fronte a un troppo grande nemico. «Tutto in un attimo può cessare, tutto può finire», ha aggiunto Bertone (e noi continuavamo a pensare a quei 289, che una settimana fa compravano le uova per i loro bambini). Il silenzio davanti a queste bare (e di quella notte, dopo l’ultimo schianto di macerie) è il silenzio – ha detto il cardinale – del Calvario, dopo l’ultimo grido di Cristo. Il silenzio dell’uomo e il silenzio di Dio in quell’ora sospesa sull’abisso: aveva dunque, la morte, vinto per sempre? Straziante, vertiginoso sovrapporsi del venerdì santo con questa Via crucis d’Abruzzo; simmetria delle donne sotto la croce nelle sacre rappresentazioni, e dell’Italia davanti alla tv, ieri. Come uno schiaffo poderoso, che impone di fermarsi almeno un momento. L’enigma di una morte piombata come uno sparviero ci interroga perentoriamente. Davvero vince la morte, in una notte di terremoto, come, alla fine, nelle nostre singole vite? Cos’è la Pasqua, se non la memoria di un sepolcro vuoto, di un Dio risorto dalla morte? In cosa crediamo, con chi stiamo davvero? Le facce della gente al funerale sembravano riflettere – nel dolore pudico, austero – spesso anche una ritrosia a rispondere alle parole del celebrante. Come di figli troppo feriti per poter serenamente credere in una resurrezione, che nella loro stessa carne sembra oggi così crudelmente smentita. E questo è così profondamente umano. Chissà, sul Calvario, le facce di chi stava a guardare; avevano creduto in un Re, e vedevano un povero corpo martoriato. Chissà che buio infinito, quando Maddalena stava davanti al sepolcro, perché il suo Signore era morto. Ma il sepolcro, era vuoto. Lo sbalordimento, la gioia inaudita di Maddalena che incontra Cristo risorto. Niente di meno, crediamo, occorre ai padri e alle madri che hanno perso i loro figli. È un aut aut la sfida in quella piazza di bare – un aut aut anche a noi, che non abbiamo perduto nulla. Ci crediamo, che la morte non vince? Questa è per molti in Abruzzo «l’ora della grande fede», come ha detto l’arcivescovo Molinari; che ha chiamato per nome alcuni dei suoi fedeli scomparsi – Fabio, Franca, Alessandra... In un appello che ha fatto venire alla mente il buon pastore del Vangelo di Giovanni, che «chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori... e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce». In un appello verso un tempo in cui , ha ricordato il Papa dall’Apocalisse, «non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». Quando quei figli perduti saranno – davvero – riabbracciati. È la speranza cristiana: capace, nella sua certezza, di sfidare il futuro.