Ne abbiamo ormai piene le tasche di “bilanci” pontificali. E anche di gare mediatiche per chiavi di lettura. Tanto più che l’interessato, papa Francesco, ha detto che i bilanci li fa solo al confessore e in questa settimana, mentre il mondo lo celebrava, si è ritirato in disparte, sotto gli unici riflettori che lo interessano: quelli dello Spirito. I protagonismi, gli incensi alla sua persona, del resto, da sempre li schiva come la peste. Il servizio non vuole monumenti. Persino un battagliero Bernardo di Chiaravalle sarebbe rimasto a bocca asciutta. Lui che non aveva peli sulla lingua quando si trattava di chiosare a colpi di penna papi e vescovi riguardo ai mali mondani e che non lesinava neppure di apostrofare così Eugenio III, suo discepolo e frate del suo Ordine divenuto pontefice: «Non temo per te né il ferro né il veleno ma l’orgoglio del dominio». È l’unico pericolo che di sicuro non corre Francesco.
Lui, ma noi? Noi da un anno a questa parte di fronte all’imprevista opera di spoliazione siamo rimasti come rimasero tutti davanti al restauro ultimato del “Giudizio universale” di Michelangelo nella Sistina: sorpresi, spiazzati, increduli. Sbalorditi davanti al brillare di quei colori intensi, ritrovati sotto secoli di fuliggine, di polveri incrostate e di braghe posticce che ne avevano deviato e offuscato l’originario splendore. Qualcuno, sgomento, disse che era troppo quel colore, troppo nuovo per essere antico.
Era la minoranza di quei critici che sulle fuliggini avevano costruito il “loro” Michelangelo e mal digerivano che le loro fissate sperequazioni iconografiche venissero squadernate da un colpo di spugna. Ma tant’è, con o senza il loro beneplacito, il “Giudizio” resta quello autentico, così come autentico è il Vangelo
sine glossa mostrato da Francesco attraverso la spontanea corporeità dei suoi gesti e delle sue parole.
Resourcement. Siamo risaliti alle sorgenti, provocati a tutti i livelli, messi a nudo di fronte a noi stessi. Paventate “papalatrìe” o no, a oggi il dato oggettivo non cambia, e la sostanza resta questa: Francesco ha nutrito e sparso il conforto della fede, ha fatto rifiorire la speranza in una moltitudine di uomini e donne. Perciò adesso gli interrogativi sono al nostro specchio. Se vuoi capire, guardi. Se vuoi andare avanti, ascolti. Se non t’interessa, taci. Se vuoi viverlo, segui quello a cui il vescovo di Roma continua a spianare la strada: «Se non predico e testimonio il Vangelo, la mia vita vale niente». Non c’è altro. Punto e a capo.
Un altro anno è davanti. E il cantiere della vita della Chiesa è sempre aperto. Papa Bergoglio intanto compirà ancora quel paradigmatico ritorno alle fonti, verso la madre di tutte le Chiese, andrà a Gerusalemme, insieme ai fratelli ortodossi perché «Cristo non può essere diviso». Continuerà ad attuare la dinamica missionaria attraverso i tre vitali passi confacenti alla natura della Chiesa rimasti lascito inevaso del Concilio: la sinodalità, l’unità dei cristiani, la povertà. Andrà in Asia senza lo spirito del
travelling man, del «vescovo d’aeroporto».
Libero dall’ansia di prendere possesso degli spazi, piantare bandierine di
reconquista. Privilegerà le azioni che generano dinamiche nuove, che richiedono accompagnamento, pazienza e attesa perché «il tempo è superiore allo spazio», «Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia» e «noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi». Senza assi preferenziali o ostilità preconcette verso le nazioni, i popoli, le religioni.
Per intuire qualcosa intorno alla cartografia delle sorgenti da cui fluisce il torrente di cose nuove e cose antiche con cui Francesco continuerà a spiazzare e a incamminare la Chiesa e il mondo serve più agilità nel dribblare gli stereotipi prodotti su di lui a getto continuo in un senso o nell’altro e – come ripete sovente lui stesso – un po’ di «discernimento». Il tempo è di Dio e il meglio dovrà, forse, ancora venire.