Con le designazioni di ieri si torna all’antico, e cioè all’idea che la carica di senatore a vita riconosca un’eccellenza di natura eminentemente civile, declinata «nel campo sociale, scientifico e letterario» (così, appunto, il dettato della Costituzione). Nomi pensati per unire, insomma, e per ribadire l’importanza che il nostro Paese ancora riveste sulla scena internazionale. Spazzando via certe (irrealistiche) ipotesi della vigilia, secondo le quali il presidente della Repubblica avrebbe potuto servirsi di questo suo specifico potere per intervenire sull’ingarbugliata matassa politico-giudiziaria, Napolitano è riuscito soltanto in parte nell’intento di rasserenare un clima che continua sotto molti aspetti a rimanere teso e di difficile decifrazione.
È come se, rivolgendosi quasi più all’esterno che all’interno, avesse voluto ribadire che l’Italia non è la «fidanzata in coma» cara alle semplificazioni cosmopolite, non è il Paese ostaggio di fazioni contrapposte che parrebbero consegnarla a una sorta di guerra fredda permanente o di strisciante conflitto civile. L’Italia è, semmai, una nazione capace di passione e di inventiva, generosa nella bellezza e sorprendente nell’innovazione. Con la stessa logica, in passato, erano stati nominati senatori a vita Eduardo De Filippo e Carlo Bo, Rita Levi-Montalcini e Norberto Bobbio, Leo Valiani e Sergio Pininfarina, oltre a due poeti dal destino apparentemente opposto, il Nobel Eugenio Montale e il Nobel mancato Mario Luzi (Montale, però, arrivò in Senato nel 1967, otto anni prima di essere laureato a Stoccolma).
Le scelte di Napolitano vogliono andare in questa direzione, anche se non sembrano seguire il criterio di ampia rappresentatività delle diverse tradizioni culturali al quale si erano saggiamente attenuti i suoi predecessori. Difficile, in ogni caso, trovare qualcosa da eccepire sul valore di Carlo Rubbia, premiato dall’Accademia di Svezia per i suoi studi sulla fisica delle particelle, o sul prestigio di Renzo Piano, al quale si devono alcuni dei più importanti progetti architettonici degli ultimi decenni. Qualcuno, magari, potrebbe approfittare del riconoscimento attribuito a Claudio Abbado per rinfocolare la tradizione, anch’essa tutta italiana, della sfida diretta con l’altro grande maestro Riccardo Muti (da noi perfino la musica classica ha il suo Coppi e, di conseguenza, il suo Bartali).
Proprio la levatura di questa terna rende meno comprensibile l’inclusione della ricercatrice Elena Cattaneo, titolare di un curriculum internazionale dignitoso ma finora non strepitoso al cospetto di altre eccellenze della scienza italiana, e per di più anche aperta e “politica” contestatrice dei calibrati limiti alla sperimentazione sulle cellule staminali embrionali fissati dalla legge italiana. Certo, anche in campo scientifico l’Italia ha bisogno di quello che il presidente del Consiglio Enrico Letta, riferendosi alla nomina della professoressa Cattaneo, ha definito «un messaggio di grande speranza». È tuttavia legittimo domandarsi se la scelta di una studiosa che non ha lesinato prese di posizione polemiche verso il nostro ordinamento sia la più adatta a pacificare gli animi in una materia tanto delicata e decisiva come la bioetica. L’obiettivo del presidente Napolitano resta chiaro e condivisibile, ma rimane la sensazione che, purtroppo, non sia stato centrato in pieno.