Chi si era illuso che l’impetuoso vento delle proteste nel mondo arabo portasse alla caduta dei dittatori e degli autocrati, abbarbicati al potere da decenni, e facesse fiorire la democrazia, farà bene a tornare a un più prosaico realismo: i morti continuano ad aumentare in Siria, come in Yemen, come in Bahrein, per non parlare della guerra civile in Libia, non risolta dal confuso intervento internazionale. E, come prevedibile, sono tornate le proteste e le violenze anche in Egitto, proprio nella piazza simbolo della rivolta, piazza Tahrir. Le élite al potere possono anche accettare di sacrificare l’uomo simbolo del regime (che si chiami Mubarak o Ben Ali) ma sono assai più restie a cedere il potere reale, col rischio – anzi, la certezza – di rimanere in balìa dei loro vecchi avversari politici. «È la ferrea legge della banalità», per riprendere la famosa tesi del geopolitologo statunitense Colin Gray. Cacciato il Faraone, in Egitto rimangono così al loro posto tutti gli elementi di dissidio e conflitto: i militari che gestiscono la transizione, la nomenclatura burocratico-amministrativa, le opposizioni liberali, i radicali islamici, le masse di giovani con un futuro dalle prospettive grigie e incerte. Trovare l’equazione politica che soddisfi tutti è praticamente impossibile. I movimenti di protesta e le masse di dimostranti che hanno provocato la cacciata di Mubarak avevano, e hanno, aspirazioni e ideali diversi. Chi ha sfidato la repressione si aspettava un cambiamento politico sostanziale e non solo di facciata. Molti egiziani avrebbero quindi voluto che il governo di transizione si muovesse con maggiore determinazione nei confronti degli elementi di spicco del passato regime, colpendo con durezza la sfacciata corruzione che imperava.Ma i militari sembrano sempre più spaventati dal rischio di derive che finirebbero con il non controllare; i loro interlocutori più affidabili sono gli esponenti del ceto politico e amministrativo del passato regime. In fondo, l’obiettivo primario di queste persone è la stabilità e la sicurezza del Paese, che con disinvoltura equiparano alla propria. Nessun salto nel vuoto, dunque, o cambiamenti improvvisi in politica estera. E nessun processo pubblico al passato dell’Egitto, che aprirebbe il vaso di Pandora non solo della corruzione e della malversazione, ma anche e soprattutto degli anni di violenza contro gli oppositori e contro i gruppi radicali islamici.Dall’altra parte, ci sono i partiti di opposizione che, dopo il referendum per le modifiche costituzionali, si preparano alle elezioni politiche. Si è spesso fatta notare la limitata presenza di slogan islamici nei giorni della rivolta, come se i Fratelli Musulmani e gli altri gruppi islamico-radicali fossero stati indeboliti dalle richieste di natura secolare degli egiziani, incentrate sulla libertà, la rappresentanza, il miglioramento delle condizioni economiche. Un’idea rassicurante, ma purtroppo non solida: il referendum ha mostrato ancora una volta le capacità di mobilitazione dei movimenti islamici radicali, i quali – in questo momento – non hanno semplicemente interesse a forzare la mano. Anzi, un basso profilo e un’agenda politica moderata sono fondamentali per catturare il sostegno della classe media (oltre che degli egiziani più tradizionalisti) e per non spaventare i militari o la comunità internazionale. Scommettono sulla loro superiore organizzazione e sul potere persuasivo della moschea nel momento decisivo, in particolare nelle aree rurali o dei quartieri più poveri del Cairo. Nelle zone, insomma, dove i movimenti liberali avranno maggiori difficoltà a farsi conoscere, e dove le loro ricette moderate o i loro ragionamenti all’occidentale suoneranno probabilmente meno persuasivi degli slogan incentrati sulla "giustizia sociale" garantita dall’islam. È con questa realtà e con queste prospettive che le altre forze vive del grande Paese del Nilo devono fare i conti. La storia on si ferma, e il suo finale non già scritto.