domenica 22 marzo 2009
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«Prega­te in­ces­santemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche» ( Ef 6,18). Eterno dialogo tra terra e cielo, la preghiera da sempre svela il bisogno dell’uomo di rivolgersi a Dio, di lodarlo quando tutto va per il verso giusto, ma soprattutto di chiedere soccorso nel momento del bisogno: «Vieni presto, Signore, in mio aiuto» ( Sal 70), implora il salmista. Perfino Gesù, pur sapendo che avrebbe avuto ogni potere sul cielo e sulla terra, spesso si ritirava solo a pregare e nel momento dell’angoscia ha avuto l’umiltà d’implorare Dio: «Padre, allontana da me questo calice». Più volte il Maestro ha insegnato ai discepoli a pregare: «Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe…, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» ( Mt 6,5.6). Gesù conosceva bene il cuore dell’uomo e ben sapeva che ogni volta che c’è crisi di fede la preghiera si svuota del suo afflato interiore e le preghiere subentrano alla preghiera. Quasi a nascondere la confusione sia pure innocente tra superstizione e fede, la preghiera diviene culto, rito, tradizione, come se bastasse recitare un’orazione per assicurarsi la protezione divina. Eppure, pregare per chiedere è lecito, anzi, chi non ha l’umiltà di chiedere tradisce un atteggiamento di autosufficienza e, chiuso nella sfera della razionalità, imbrigliato nelle leggi della natura, dimentica che nulla è impossibile a Dio. Gesù stesso ci ha detto: «Chiedete e vi sarò dato» ( Mt 7,7), ma mai come in questo momento abbiamo la sensazione di non essere ascoltati: la disoccupazione in vertiginoso aumento sta mettendo in ginocchio sempre più famiglie e sempre più gente chiede lavoro, ma il lavoro non c’è, chiede pane, ma il pane non arriva. È Dio che non ci ascolta più o siamo noi che nelle contraddizioni di una vita convulsa, nella fatica del giorno, abbiamo dimenticato come si prega? Forse anche noi dovremmo chiedere, come gli apostoli: «Signore, insegnaci a pregare» ( Lc 11,1). Forse abbiamo dimenticato cosa rispose il Maestro: «Quando pregate non sprecate parole, ma dite Padre nostro». Probabilmente noi diciamo «Padre mio» e chiediamo per noi quello che viene negato ad altri, preghiamo per la nostra sicurezza economica anche se questa va a discapito di altri, chiediamo di salvare i nostri figli da un futuro incerto, ma rimaniamo indifferenti se a Sud del mondo i bambini muoiono di fame. Probabilmente come il figlio maggiore della parabola del figliol prodigo crediamo di stare nel giusto e di avere diritto più degli altri alla misericordia di Dio, ci indigniamo se il Padre offre il vitello grasso a chi ha perso la strada. Forse dovremmo ricordare più spesso le parole di Giacomo: «Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male» ( Gc 4,2-3). Abbiamo dimenticato che se avessimo fede quanto un granellino di senapa potremmo dire a un monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, ma se non facciamo nulla per moltiplicare i nostri pani e nostri pesci in modo da distribuirli alla folla affamata, probabilmente non abbiamo fede, perché chi dice di amare Dio che non vede e non ama il fratello che ha accanto è mentitore. Non può esservi preghiera senza fede e non vi è fede senza amore, perché solo l’amore ha la potenza di spostare le montagne. Forse in questa Quaresima in cui sentiamo l’urgenza di riorganizzare la speranza per poter andare incontro alla gioia della Pasqua, dovremmo davvero tornare a pregare, perché se noi che siamo cattivi sappiamo dare cose buone ai nostri figli, quanto più il Padre nostro che è nei cieli saprà dare cose buone a chi gliele domanda. Dovremmo pregare incessantemente e senza stancarci, come quella vedova che tante volte si recò dal giudice finché non ottenne giustizia, nel segreto del cuore dovremmo imparare a chiedere per gli altri quello che vorremmo per noi stessi. Dovremmo tornare a ripetere: «Padre nostro»; dovremmo chiedere: «Insegnaci ad amare e aumenta la nostra fede».
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