Nei momenti di crisi occorre la voce credibile di un uomo che dica: teniamoci stretti. Come occorre, in una tempesta, un capitano che sapendo la rotta offra indicazioni buone. In questa crisi innescata in buona parte dall’egoismo, il modo peggiore per reagire sarebbe altro egoismo. E non sarebbe soluzione migliore lasciare che le cose vadano senza cambiare nulla. Ma chi ha nel mondo l’autorevolezza per dire: teniamoci stretti? Per dire: senza solidarietà tutti finiamo a mare? Non possono dirlo in modo credibile coloro che hanno fatto di un modello egoistico il proprio spunto di vita e le proprie profezie di sviluppo. E nemmeno coloro che a un modello egoistico opponevano facili e irrealizzabili, e dunque pericolose, utopie. Benedetto XVI lo può fare. In virtù della storia che rappresenta, e in virtù del nome che ha scelto di portare. Che è il nome del santo che, nel colmo di una crisi che investiva il mondo conosciuto, seppe con l’opera e con la domanda al Cielo essere punto di unità e di ripresa. Nel suo messaggio di Natale Urbi et Orbi il Papa chiama gli uomini a riprendere uno spirito di autentica solidarietà. Egli parlando dell’apparire di Gesù al mondo non parla di un mondo astratto. Evoca i nomi dei luoghi dove le crisi sono più acute: dallo Zimbabwe alla Terra Santa, dal Darfur alla Somalia, e i luoghi dove i diritti sono conculcati. La speranza che porta quel piccolo germoglio di presenza di Dio apparso a Betlemme non è per un 'altro mondo'. Ma per questo, segnato da divisioni e da conflitti nazionali, sociali e personali le cui radici sono nella mancanza di solidarietà umana. Ci vuole la presenza di un Dio vivo, disarmato come un bambino, perché quella mancanza si converta in desiderio di solidarietà, in disposizione al dialogo, al negoziato, alla considerazione reciproca. Ci vuole una conversione del cuore di fronte alla Bellezza di Gesù perché si allenti la presa nervosa che confida nel possesso di beni per conoscere un’illusione di gioia. Dai tragici frutti dell’egoismo non si esce con l’egoismo. Nell’augurio all’Italia, il Papa non a caso non fa giri di parole. Ha gli occhi per vedere e vede, come tutti coloro che sono nel mondo 'reale' e non in quello delle inutili contrapposizioni politiche. E non si attarda in vane accuse. Riflette sulla 'considerevole crisi' sociale che sta investendo anche il nostro Paese, e invita alla solidarietà reciproca. Mai come in questi tempi tale espressione deve essere letta senza retorica. La solidarietà non è un optional, una specie di buona azione per certi momenti speciali. O diviene lo sguardo con cui si osservano normalmente gli altri intorno a sé oppure il rischio di lacerazioni sarà fortissimo. E nella crisi non ci sarà qualcuno che se la cava e qualcuno no. La barca andrà a fondo con tutti. Per fortuna c’è chi, dando voce ai tanti che testimoniano la solidarietà tutti i giorni, può richiamarci alla parte migliore di noi stessi, l’unica che potrà farci uscire dalla crisi. Il Papa non ha in mente una ricetta, perché non c’è 'una ricetta' per far uscire il mondo dalla crisi. In ogni ricetta, in ogni tentativo di governi, società, o famiglie o singoli, dovrà essere presente la misura della solidarietà. Che nasce dal cuore dell’uomo quando si rinnova. Altrimenti nessuna ricetta servirà se non a creare dopo una crisi altra più dura crisi, e dopo ingiustizia altra più profonda ingiustizia. La voce mentre la barca è in pericolo c’è. Ora sta a noi ascoltare.