«Il mondo è delle donne». Parola del sociologo francese Alain Touraine che in un recente studio, da poco in libreria, offre un accurato resoconto sulla condizione attuale della donna attraverso una serie di sondaggi e di interviste finalizzate a cogliere gli esiti del femminismo europeo in piena epoca globalizzata. Alla domanda su che cosa significhi oggi conquistare la propria identità, la risposta – così si dice – è unanime: 'Io sono una donna, costruisco me stessa in quanto donna attraverso la mia sessualità'. Dopo un secolo di conquiste dei diritti civili e di rivendicazioni sociali, lo slogan di un certo femminismo non pare cambiato: il corpo è mio, lo gestisco come meglio credo, e solo in questo modo esprimo la mia identità. Se sorgono problemi, sono sempre io che decido. In questo scenario è facile comprendere come per quel femminismo divenga istintivamente più facile accettare – dietro l’innocua etichettatura linguistico-matematica Ru486 – risolvere e realizzare un proprio asserito «diritto», passando attraverso l’assunzione di due pillole e un bicchiere d’acqua. Ancora più semplice e sbrigativo del dramma dell’aborto chirurgico. Se le cose stanno così questo femminismo continua suo malgrado a lavorare contro le donne, la cui dignità, ricondotta sul binario dell’utilizzo strumentale del proprio corpo, sembra beffardamente ripercorrere la strada del maschilismo più hard, quello che continua a vedere la donna come strumento sessuale. Che non sia invece giunto il momento, da parte delle donne, di immaginare una nuova strategia culturale, in grado di porre mano alla ristrutturazione della simbolica del corpo, come luogo in cui si celebra la verità della carne? Proviamo a pensare in concreto a una giovane donna, decisa ad abortire e che, giunta in ospedale e attraverso una prassi fredda e consolidata, viene invitata a bere un sorso d’acqua e il concentrato chimico abortivo. Dopo può andare a casa e tornare dopo due giorni per completare il protocollo. Segno ulteriore del paradigma funzionalistico e spersonalizzante della prassi medico-ospedaliera, tale strumento non abbisogna neppure di quelle pratiche di assistenza medico- psicologica, spesso disattese, ma di cui parla la 194... Tutto avviene così in tempi abbreviati, in modo tale che il 'problema' possa infine sciogliersi nella solitudine e nell’indifferenza. Oltre i pericoli concreti per la sua salute, a opera di un mezzo chimico che comunque è sempre segnale di violenza sul proprio corpo, quella giovane donna sarà progressivamente soggetta – perché non dirlo? – all’oscuramento della voce della sua carne. Che non significa soltanto, come in ogni aborto, lo spegnimento di una vita nascente – il che è drammaticamente tanto, tutto – ma anche la sordità al linguaggio del proprio corpo, che, in armonia con la propria mente e con il proprio cuore, è intenzionalmente orientato a farsi strumento di comunicazione e di potenziamento delle relazioni umane. Vera metafora sociale, il nostro corpo, che va ascoltato, accolto, difeso, esprime sempre ospitalità, volontà di accogliere la voce dell’altro, desiderio di relazioni appaganti, tensione e apertura alle manifestazioni della vita, che non possono essere comandate secondo la misura del nostro arbitrio. Con buona pace di Alain Touraine, il mondo non è ancora né delle donne né degli uomini, ma solo di coloro che sanno attendere con rispetto il cammino lento della vita senza prevaricazioni e inutili scappatoie.