La Repubblica Centrafricana è ormai in uno stato di anarchia generalizzata. Da quando i ribelli della Coalizione Séléka hanno preso il potere, lo scorso 24 marzo, rovesciando il governo del presidente François Bozizé, è la povera gente a pagare il prezzo più alto. Saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri e torture contro i civili sono all’ordine del giorno. Gli unici rifugi dove questa umanità dolente può trovare riparo sono le missioni cattoliche e alcuni campi di raccolta presidiati dalle organizzazioni umanitarie. Da Bossangoa a Bouar, da Berberati a Bangui, la popolazione è comunque ostaggio di uomini armati che fanno il bello e il cattivo tempo. La sensazione è che il neo presidente golpista Michel Djotodia abbia perso il controllo della situazione, soprattutto per il costante e progressivo ingresso nel Paese africano di mercenari sudanesi e ciadiani, molti dei quali inquadrati all’interno di cellule eversive jihadiste. La popolazione, come era prevedibile, si sta organizzando nel tentativo di difendersi dalle bande di criminali il cui unico obiettivo è quello di depredare chiunque capiti loro a tiro, facendo uso di torture e violenze d’ogni genere. Al momento, è impossibile avere un bilancio delle vittime, ma non c’è giorno che passi in cui non avvengano uccisioni, soprattutto, nei confronti di coloro che vivono nelle zone rurali. In questo inferno di dolore, le responsabilità della comunità internazionale sono rilevanti. Anzitutto, perché si è permesso al movimento salafita di matrice saudita di finanziare le componenti più estremiste del Séléka, con la complicità del governo di Khartum. Inoltre, gli Stati Uniti, come anche la Francia, sembrano essere usciti dal letargo solo in questi giorni, sebbene autorevoli esponenti della Chiesa cattolica e della società civile più in generale avessero denunciato da mesi il continuo e progressivo deterioramento della situazione. Rimane poi aperta la questione della parcellizzazione del territorio in aree di influenza legate alle varie bande, molte delle quali in competizione tra loro e addirittura in aperto dissenso col governo di Djotodia. Nel frattempo, l’Unione Africana (Ua) si è dimostrata totalmente incapace di gestire un’emergenza che rischia di contaminare i Paesi limitrofi. Infatti, vi sono testimonianze che parlano di un ingresso di formazioni jihadiste anche più a meridione, nel settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo. Il che fa pensare alla strategia di alcune componenti radicali del mondo arabo che guardano con ingordigia alle immense ricchezze dell’Africa subsahariana. Se da una parte vi è l’evidente interesse di esportare l’ideologia pseudo-religiosa salafita nel cuore del continente africano, dall’altra questi fanatici sono in competizione, non solo con gli occidentali, ma anche con quei Paesi inquadrati nel cartello dei Brics. D’altronde, nel Centrafrica ci sono petrolio e uranio, due fonti energetiche molto richieste dal mercato. Ma ammesso pure che i militari francesi, inviati dal presidente François Hollande, riescano a normalizzare la situazione, a chi dovranno fare riferimento? Direttamente alle Nazioni Unite, o coinvolgeranno anche Djotodia che, alla prova dei fatti, si è rivelato una marionetta nelle mani di menti perverse? Il problema di fondo è che, ora come ora, risulta assai difficile sbrogliare l’intrigata matassa degli interessi stranieri in campo. Qualcuno, sottovoce, nei circoli della diplomazia, starebbe ipotizzando l’assegnazione di un mandato fiduciario, a nome delle Nazioni Unite, a un’entità sovrannazionale in grado di garantire, almeno per alcuni anni, lo stato di diritto a Bangui e dintorni. Ammesso pure che questa ipotesi possa consolidarsi, quali attori internazionali potrebbero offrire davvero garanzie di stabilità e imparzialità? La verità è che la crisi centrafricana è la cartina al tornasole del pensiero debole di una politica ancora troppo indifferente al tema della globalizzazione dei diritti.