Che il G8 dell’Aquila sia stato alla fine ben organizzato – ottima vetrina per l’Italia in una cornice di dolore per la tragedia del terremoto e di fervore per la ricostruzione – va di certo riconosciuto. Le lodi espresse dai leader presenti non sono state solo di circostanza. Tuttavia, data una sostanziale riuscita 'interna' del vertice, con l’allargamento di fatto dei membri ammessi al ristretto club dei Grandi, ben più problematica è, almeno finora, la valutazione dei risultati 'esterni' raggiunti. Tre sono sostanzialmente i dossier sui quali ci si aspettava un passo avanti da parte dei potenti del mondo, affiancati ieri dalle economie ancora considerate 'emergenti': regole per la finanza, clima e aiuti allo sviluppo. Se sul primo fronte c’è una buona convergenza sui 12 punti elaborati dietro impulso di governo e Bankitalia, tesi a rimettere ordine e trasparenza su mercati impazziti che hanno provocato la grande crisi in cui ci dibattiamo, sui rimanenti versanti bisogna leggere oltre le cortine fumogene delle dichiarazioni sempre, comprensibilmente, orientate all’ottimismo. Senza la Cina (e senza l’India) non si migliorerà lo stato di salute del Pianeta, perché nei cieli non ci sono frontiere e le emissioni che soprattutto i due giganti asiatici si rifiutano di tagliare contribuiscono al riscaldamento globale senza limiti di confini geografici. Si potrebbe a lungo discutere del diritto di oltre due miliardi di cittadini a non vedere limitata la crescita del proprio benessere al fine di tutelare un ambiente che l’Occidente ha a lungo sfruttato con ben pochi riguardi. Resta il fatto che se la Terra è a rischio, come ha ribadito ieri sera Barack Obama, per ora si è persa un’occasione unica, secondo quanto ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Kimoon. Certo, le decisioni si prenderanno a Copenaghen fra qualche mese, ma le premesse non appaiono del tutto incoraggianti, considerato anche il termine del 2050 per abbattere drasticamente i cosiddetti gas serra, sufficientemente lontano da consentire ulteriori aggiustamenti al ribasso. Ancor meno roseo è il quadro dell’impegno per la cooperazione. Il fondo di 15 miliardi per la sicurezza alimentare che dovrebbe essere ufficialmente varato oggi sembra, sono le parole di una importante Ong, «lo stesso regalo incartato per la seconda volta», dato che la cifra equivale agli stanziamenti promessi nel vertice del 2005 e mai effettivamente versati. Tutte le nazioni inadempienti, Italia compresa, hanno fatto ammenda per le proprie mancanze e riaffermato solennemente di voler provvedere al più presto. Non sarebbe però sbagliato dire, che nel caso i passati annunci fossero stati onorati, dal summit dell’Aquila non uscirebbe un euro per l’Africa nemmeno sulla carta. Se, poi, già un po’ stridono l’agio, i doni e le cene riservati ai leader quando a pochi passi migliaia di persone sono sfollate nelle tendopoli, non è ulteriore moralismo sottolineare, come ha fatto l’organizzazione umanitaria Save the Children, che nei tre giorni del G8 moriranno migliaia e migliaia bambini per cause facilmente estirpabili, dalla fame alla mancanza d’acqua a malattie curabilissime nel mondo ricco. Torna allora alla mente il secondo dei principi di giustizia formulato dal celebre filosofo politico John Rawls: le disuguaglianze sociali ed economiche sono ammissibili nella misura in cui danno il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società. Ovvero, tradotto per la circostanza, i capi delle nazioni possono godere di condizioni privilegiate a patto che mettano questo loro status al servizio dei più sfortunati. Non vorremmo che del successo di immagine dell’Aquila si dica che è stata una bella occasione di incontro e di discussione per coloro che di belle occasioni di incontro e di discussione non hanno bisogno. Mentre molti altri si attendevano qualcosa di più.