venerdì 10 luglio 2009
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Che il G8 dell’Aquila sia stato alla fi­ne ben organizzato – ottima vetrina per l’Italia in una cornice di dolore per la tragedia del terremoto e di fervore per la ricostruzione – va di certo ricono­sciuto. Le lodi espresse dai leader pre­senti non sono state solo di circostanza. Tuttavia, data una sostanziale riuscita 'interna' del vertice, con l’allargamen­to di fatto dei membri ammessi al ri­stretto club dei Grandi, ben più proble­matica è, almeno finora, la valutazione dei risultati 'esterni' raggiunti. Tre sono sostanzialmente i dossier sui quali ci si aspettava un passo avanti da parte dei potenti del mondo, affiancati ie­ri dalle economie ancora considerate 'e­mergenti': regole per la finanza, clima e aiuti allo sviluppo. Se sul primo fronte c’è una buona convergenza sui 12 pun­ti elaborati dietro impulso di governo e Bankitalia, tesi a rimettere ordine e tra­sparenza su mercati impazziti che han­no provocato la grande crisi in cui ci di­battiamo, sui rimanenti versanti bisogna leggere oltre le cortine fumogene delle dichiarazioni sempre, comprensibil­mente, orientate all’ottimismo. Senza la Cina (e senza l’India) non si mi­gliorerà lo stato di salute del Pianeta, per­ché nei cieli non ci sono frontiere e le e­missioni che soprattutto i due giganti a­siatici si rifiutano di tagliare contribui­scono al riscaldamento globale senza li­miti di confini geografici. Si potrebbe a lungo discutere del diritto di oltre due miliardi di cittadini a non vedere limita­ta la crescita del proprio benessere al fi­ne di tutelare un ambiente che l’Occi­dente ha a lungo sfruttato con ben po­chi riguardi. Resta il fatto che se la Terra è a rischio, come ha ribadito ieri sera Ba­rack Obama, per ora si è persa un’occa­sione unica, secondo quanto ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki­moon. Certo, le decisioni si prenderan­no a Copenaghen fra qualche mese, ma le premesse non appaiono del tutto in­coraggianti, considerato anche il termi­ne del 2050 per abbattere drasticamen­te i cosiddetti gas serra, sufficientemen­te lontano da consentire ulteriori aggiu­stamenti al ribasso. Ancor meno roseo è il quadro dell’im­pegno per la cooperazione. Il fondo di 15 miliardi per la sicurezza alimentare che dovrebbe essere ufficialmente va­rato oggi sembra, sono le parole di una importante Ong, «lo stesso regalo in­cartato per la seconda volta», dato che la cifra equivale agli stanziamenti pro­messi nel vertice del 2005 e mai effetti­vamente versati. Tutte le nazioni ina­dempienti, Italia compresa, hanno fat­to ammenda per le proprie mancanze e riaffermato solennemente di voler prov­vedere al più presto. Non sarebbe però sbagliato dire, che nel caso i passati an­nunci fossero stati onorati, dal summit dell’Aquila non uscirebbe un euro per l’Africa nemmeno sulla carta. Se, poi, già un po’ stridono l’agio, i doni e le cene riservati ai leader quando a po­chi passi migliaia di persone sono sfol­late nelle tendopoli, non è ulteriore mo­ralismo sottolineare, come ha fatto l’or­ganizzazione umanitaria Save the Chil­dren, che nei tre giorni del G8 moriran­no migliaia e migliaia bambini per cau­se facilmente estirpabili, dalla fame alla mancanza d’acqua a malattie curabilis­sime nel mondo ricco. Torna allora alla mente il secondo dei principi di giustizia formulato dal cele­bre filosofo politico John Rawls: le disu­guaglianze sociali ed economiche sono ammissibili nella misura in cui danno il massimo beneficio ai membri meno av­vantaggiati della società. Ovvero, tra­dotto per la circostanza, i capi delle na­zioni possono godere di condizioni pri­vilegiate a patto che mettano questo lo­ro status al servizio dei più sfortunati. Non vorremmo che del successo di im­magine dell’Aquila si dica che è stata u­na bella occasione di incontro e di di­scussione per coloro che di belle occa­sioni di incontro e di discussione non hanno bisogno. Mentre molti altri si at­tendevano qualcosa di più.
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