Sono il popolo dei senza nome. Uomini e donne che ci vivono accanto senza che neppure li vediamo. Hanno gli occhi tristi del clochard addormentato sotto il ponte. Li vedi in ginocchio e a capo chino tra i portici delle vie alla moda. Passano la mattina sdraiati con un fagotto in braccio vicino allo sportello della banca. La loro famiglia è un cagnolino, "esca" per chiedere l’elemosina. Come carta d’identità il foglio di cartone con su scritto: "ho fame".
E noi che un nome ce l’abbiamo, e abbiamo casa, e famiglia, e lavoro, spesso li scavalchiamo e allunghiamo il passo, al massimo sorridiamo, quasi sempre guardiamo altrove, aggiungendo un altro mattone al muro che ci protegge e indurisce il cuore. Perché l’abbiamo sentito e detto mille volte. Sappiamo che i poveri sono il centro del Vangelo, che essere grandi significa farsi piccoli, che il vero potere si trova nel servizio. Però confiniamo queste verità nel limbo delle frasi fatte, ad arricchire di umanità fasulla troppi discorsi di parolone colte, come fossero poesiole romantiche per i biglietti dei cioccolatini.
E invece no, dietro tanti ragionamenti forbiti, nascosti sotto la carta velina di un’indifferenza neanche dissimulata e a volte infastidita, ci sono persone in carne e ossa, che chiedono sostegno e calore, che gridano la loro umanità ferita. Ma servono orecchie disposte ad ascoltarli, mani salde per tirarli su, occhi pronti a incrociare i loro sguardi.
Ecco allora che il primo grande merito del Giubileo delle "persone socialmente escluse", è stato sottolineare che esistono, vivono, sono reali. E torna in mente l’invito, più volte ripetuto dal Papa, a lasciarsi coinvolgere con il povero, a toccarlo, a non credere che l’elemosina consista nel far cadere una monetina nel cappello. Chiamando gli esclusi in Vaticano, facendoli parlare, Francesco ha voluto ribadire che non ci sono giustificazioni per quella nostra indifferenza, ha chiesto perdono per chi si volge dall’altra parte, ha ricordato che esiste, se così la si può chiamare, una cattedra della povertà. Perché chi in apparenza non ha nulla, spesso ha molto da insegnare.
Gli ultimi, gli esclusi, gli abbandonati ci ricordano il valore della solidarietà, testimoniano l’importanza di saper sognare, sono un richiamo al coraggio della passione. Nelle loro storie dolenti, sui volti segnati dalla sofferenza e dalla delusione, puoi leggere l’sos della solitudine è vero, ma anche la forza della speranza, il valore della fraternità, la volontà di non arrendersi. Colui che ha tutto non può sognare, ha sottolineato il Papa, e le persone che non sanno più appassionarsi diventano povere dentro, peggio misere. E invece si può essere ricchi senza avere niente, si può far crescere la vita anche perdendola. E il pensiero corre alle tante iniziative di solidarietà, di promozione umana nate nel nome di un ultimo, di un clochard, di un malato rifiutato da tutti.
È il caso, ad esempio, del Gruppo Abele di don Ciotti, dell’Arche di Jean Vanier in Francia, dell’associazione Fratello. Gruppi, meglio, storie di umanità recuperate alla scuola del Vangelo, dei semplici che cercavano Gesù perché li curasse, li liberasse, li servisse, stesse loro accanto. Lui il sogno, la meta, il punto d’arrivo. Obiettivi che i figli in apparenza più fortunati della società del benessere rischiano di aver smarrito, in nome dell’arroganza del potere, di un minuto di popolarità, di pochi spiccioli in più nel portafogli. "Senzatetto" chiamiamo gli scartati da tutti, e "clochard", e "homeless", provando a tacitare la coscienza con espressioni politicamente corrette, spesso nient’altro che comodi rifugi per disinteresse e cecità.
Perché le persone socialmente escluse non sono un esercito indeterminato, dietro ciascuna di loro c’è un volto, un cammino, un percorso di vita. Ciascuna ha un nome, a identificare non solo la foto sulla carta d’identità, ma l’essenza stessa del loro stare al mondo, il germe d’infinito che hanno in cuore. E che nessuna indifferenza potrà mai spegnere.