Dici the wall, oggi, e piuttosto che a quello scomparso di Berlino, i ragazzi e le ragazze del 2009 pensano al muro di facebook, baluginante di pixel. Inevitabile. Logico. Generazionale. Un muro virtuale per lanciare messaggi, appenderci sogni, raccontare speranze. Per i loro coetanei della Cisgiordania il muro, oggi, è soprattutto quella concreta, sinistra barriera di cemento grigio che si insinua come un serpente tra le loro case. Inseguendo un confine inesistente, a separarli da una fetta importante di mondo. Una follia sulla quale la politica ha già speso tonnellate di parole, e altre ne spenderà. Ma loro, i giovani palestinesi del terzo millennio, sembrano quasi essere già oltre. Perché non si sentono pietre di quel muro. E così trasformano l’orrenda bruttura nella lavagna della loro generazione. Sulla quale lentamente sbiadiscono le scritte figlie dell’odio e della frustrazione, le attestazioni non esattamente di stima verso G.W. Bush e il governo israeliano, che – dalle lingue in cui sono scritte – sembrano restare appannaggio dei turisti scioccati. E affiora una nuova realtà. Come un vagone del metrò di New York, o una qualunque parete di una qualunque città del mondo, il muro che separa Israele dalla Cisgiordania diventa lentamente lo specchio di una generazione diversa. Che si affaccia nella notte al confine per raccontare al muro le proprie speranze, appenderci i sogni, lanciare messaggi. Ragazze e ragazzi che parlano di sé, delle loro storie, attraverso complicati graffiti o frasi semplici come quella dedicata da un Imad alla sua bella. Che non dimenticano la politica, non possono, ma che oggi sanno tradurre l’odio di un tempo in ironia graffiante: che sia il rinoceronte variopinto che sfonda il muro a due passi dal varco della tomba di Rachele, o il lapidario 'ridatemi le mie palle, grazie', che gioca sulle parole strizzando l’occhio ai molti palloni scalciati dai bambini oltre il muro. Tutto questo sotto gli occhi di altri ragazzi che, da una parte e dal-l’altra, i fucili nelle mani, sorvegliano questo facebook a cui non ci si può collegare, ma che tutti dovrebbero vedere. Chiedendosi gli uni e gli altri che cosa stiano in realtà a sorvegliare. Consapevoli, forse, di essere entrambi prigionieri della paura instillata da seminatori di odio. Di cui appaiono stanchi sia i graffitari palestinesi sia i loro coetanei al di là del muro, se è vero, com’è vero, che c’è sempre meno entusiasmo nel rispondere alle chiamate alle armi, e ormai sono in molti a cercare di evitarla.Forse nessuno di questi 'imbrattatori di muri' diverrà un nuovo Banksy. Ma quello che fanno ha un valore probabilmente più alto del lavoro dell’ormai celeberrimo graffitaro inglese. Qualcosa che dice che esiste davvero una generazione che ha voglia di «resistere a ogni tentazione... di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo», come diceva il Papa mercoledì a Betlemme. Soffocare oggi queste attese, questa speranza, questo ottimismo, spezzare una volta di più questo sogno, vuol dire rischiare di trasformare i lastroni di cemento del muro in altrettante pietre tombali. Chi vuole prendersi questa responsabilità?