venerdì 15 maggio 2009
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Dici the wall, oggi, e piuttosto che a quello scomparso di Berlino, i ragazzi e le ragazze del 2009 pensano al muro di face­book, baluginante di pixel. Ine­vitabile. Logico. Generazionale. Un muro virtuale per lanciare messaggi, appenderci sogni, rac­contare speranze. Per i loro coe­tanei della Cisgiordania il muro, oggi, è soprattutto quella con­creta, sinistra barriera di cemen­to grigio che si insinua come un serpente tra le loro case. Inse­guendo un confine inesistente, a separarli da una fetta importan­te di mondo. Una follia sulla quale la politica ha già speso tonnellate di paro­le, e altre ne spenderà. Ma loro, i giovani palestinesi del terzo mil­lennio, sembrano quasi essere già oltre. Perché non si sentono pietre di quel muro. E così tra­sformano l’orrenda bruttura nel­la lavagna della loro generazione. Sulla quale lentamente sbiadi­scono le scritte figlie dell’odio e della frustrazione, le attestazioni non esattamente di stima verso G.W. Bush e il governo israelia­no, che – dalle lingue in cui sono scritte – sembrano restare ap­pannaggio dei turisti scioccati. E affiora una nuova realtà. Come un vagone del metrò di New York, o una qualunque pa­rete di una qualunque città del mondo, il muro che separa I­sraele dalla Cisgiordania diven­ta lentamente lo specchio di una generazione diversa. Che si af­faccia nella notte al confine per raccontare al muro le proprie speranze, appenderci i sogni, lanciare messaggi. Ragazze e ra­gazzi che parlano di sé, delle lo­ro storie, attraverso complicati graffiti o frasi semplici come quella dedicata da un Imad alla sua bella. Che non dimenticano la politica, non possono, ma che oggi sanno tradurre l’odio di un tempo in ironia graffiante: che sia il rinoceronte variopinto che sfonda il muro a due passi dal varco della tomba di Rachele, o il lapidario 'ridatemi le mie pal­le, grazie', che gioca sulle paro­le strizzando l’occhio ai molti palloni scalciati dai bambini ol­tre il muro. Tutto questo sotto gli occhi di al­tri ragazzi che, da una parte e dal-­l’altra, i fucili nelle mani, sorve­gliano questo facebook a cui non ci si può collegare, ma che tutti dovrebbero vedere. Chiedendo­si gli uni e gli altri che cosa stia­no in realtà a sorvegliare. Consa­pevoli, forse, di essere entrambi prigionieri della paura instillata da seminatori di odio. Di cui ap­paiono stanchi sia i graffitari pa­lestinesi sia i loro coetanei al di là del muro, se è vero, com’è vero, che c’è sempre meno entusia­smo nel rispondere alle chiama­te alle armi, e ormai sono in mol­ti a cercare di evitarla.Forse nessuno di questi 'im­brattatori di muri' diverrà un nuovo Banksy. Ma quello che fanno ha un valore probabil­mente più alto del lavoro del­l’ormai celeberrimo graffitaro in­glese. Qualcosa che dice che esi­ste davvero una generazione che ha voglia di «resistere a ogni ten­tazione... di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo», come diceva il Papa mercoledì a Be­tlemme. Soffocare oggi queste at­tese, questa speranza, questo ot­timismo, spezzare una volta di più questo sogno, vuol dire ri­schiare di trasformare i lastroni di cemento del muro in altrettante pietre tombali. Chi vuole pren­dersi questa responsabilità?
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