Siamo al duecentesimo posto. Su duecento. Cioè, ultimi. Il peggior lavoro del cosiddetto mondo occidentale. Peggio che tagliare boschi, fare gli sguatteri in cucina, buttarsi in mezzo agli incendi, vivere tutto il giorno tra i criminali o rischiare la vita in guerra. Se non fosse considerata dai media americani una ricerca seria, ci sarebbe da dubitare parecchio. Eppure nella sua annuale classifica dedicata alle professioni, la società specializzata “CareerCast. com” non usa mezzi termini: quella del giornalista è oggi considerata l’occupazione peggiore. Che la crisi economica, i tagli e le incertezze abbiano tolto una parte del suo fascino a questo lavoro (e a tanti altri) non ci piove. A nessuno fa piacere sapere di essere seduto su un ramo che comincia a scricchiolare. Per non parlare di quanto sia ancora incerto il futuro economico dell’informazione tra “vecchio” mondo cartaceo e “nuovo” mondo digitale. E tuttavia, la prima cosa che ti chiedi non è se tu, giornalista, sei felice, ma come sia possibile che «il peggior lavoro del mondo» attiri ancora così tanti giovani che affollano università e corsi e che bussano ogni giorno alle porte delle redazioni.
Il motivo è semplice, semplicissimo: quella del giornalista rimane ancora una professione stupenda. Che ti stimola e ti mette continuamente alla prova. Che ti allarga la mente e ti tiene “all’erta”. Cioè, vivo. Curioso. Basterebbe solo questo per considerarla una gran bella professione. Ma come ben sappiamo tutti (anche i lettori) fare i giornalisti è molto altro. E allora, come la mettiamo? Come può il giornalismo essere al contempo la peggiore professione e una delle migliori? La risposta è (forse) nella stessa ricerca di “CareerCast.com”. Che non analizza la bellezza e le potenzialità dell’essere giornalisti ma il “valore” della professione. La classifica, infatti, «è stilata considerando parametri come l’ambiente di lavoro, il livello di stress, la richiesta e la possibilità di essere assunti, oltre al guadagno medio». Tutti dati che dovrebbero far riflettere gli esperti del settore (e non solo). Perché la domanda di fondo non è come far sentire quella del giornalista una bella professione ma come ridarle quella forza e quella speranza senza le quali rischia di morire. Perché non c’è delusione più grande che vedere mortificato uno dei mestieri più belli del mondo.