Sono stati questi i messaggi culturali e metodologici più innovativi delle leggi Biagi e Moratti, oltre dieci anni fa. Contrastati in ogni modo come pochi altri, ma comunque mai formalmente ritrattati. Eppure, ancora oggi, meno di uno studente su dieci è posto nelle condizioni di formarsi in azienda. L’apprendistato di primo livello, quello in diritto-dovere di istruzione e formazione fino a 18 anni, interessa percentuali da prefisso telefonico, mentre, ad esempio, in Germania coinvolge quasi il 30% di ogni leva generazionale. L’apprendistato di alta formazione, quello tra i 19 e 29 anni, quindi quello per lauree, master e dottorati compresi, si pensi un po’, ha raggiunto, dal 2008 ad oggi, la stratosferica cifra di 540 contratti (!).
I giovani italiani continuano ad incontrare, in media, il mondo del lavoro a poco più di 21 anni quando i coetanei europei lo fanno già a 16 o al massimo a 17. Inoltre, l’unico 'merito' di cui si discute sui mass media è quello declinato alla tradizionale maniera 'scolastica': prendere buoni voti in pagella. Quando un ragazzo, poi, non riesce a scuola o ha problemi con la scuola, docenti e genitori continuano tuttora a dirgli, minac- ciosi o rassegnati, che dovrà andare a lavorare. Come se lavorare non volesse dire, tanto più oggi, società del mercato globale e della cosiddetta conoscenza, anche studiare, formarsi, e per l’intera durata della vita. Al contempo, nelle imprese si sente tuttora dire che «qui si lavora, mica si perde tempo in chiacchiere di formazione». E se obbligati da norme precise (per lo più incomprese da chi le dovrebbe attuare), si ricorre ai cosiddetti esperti esterni a cui delegare queste inutili ritualità. Come se si potesse lavorare senza dover pensare, e sempre meglio, cercando di immettere valore aggiunto qualitativo, innovativo, talentuoso in ciò che si fa.
Perché questo stato delle cose? Le ragioni sono naturalmente tante e complesse. Si va da una formazione dei docenti che nemmeno contempla la possibilità che si possa e si debba insegnare ai ragazzi sul, dal, con, per, durante il lavoro, alla rigidità imbolsita di un’organizzazione burocratica scolastica ancora ferma al modello fordista in un’epoca in cui perfino le fabbriche l’hanno abbandonato. C’è tuttavia una causa delle cause. Squisitamente culturale. La si può semplificare in questo modo. Nel 1970 Celentano vinse il festival di Sanremo con la famosa canzone 'Chi non lavora non fa l’amore'. Suscitò vivacissime reazioni perché appariva antisindacale, un’apologia reazionaria del crumiraggio. In realtà, era il portato di una mentalità tradizionale che ancora si radicava nella or- gogliosa rivendicazione di san Paolo ai Tessalonicesi.
Cari fratelli, scriveva l’apostolo, io predico Gesù Cristo a tutti notte e giorno. Ma né voi né nessuno mi mantiene e mi ha mai mantenuto: io ho sempre lavorato «con fatica e sforzo». Cucendo e facendo tende e vele. Mentre fra di voi c’è gente che «vive disordinatamente senza far nulla». Ecco perché, concludeva, «chi non vuole lavorare neppure mangi». Quasi trent’anni dopo Celentano, invece, Irene Grandi cantava che «il lavoro fa male», «solo l’amore fa bene »; affermazioni ben diverse da quel che aveva scritto Pavese: «lavorare stanca». Il che è ovvio, visto che ogni lavoro, e quindi anche lo studio, implica sempre fatica.
Pure Celentano nel frattempo sembra aver cambiato mentalità. Il lavoro, insomma, e soprattutto certi tipi di lavoro, non sono più riconosciuti il valore fondante di ogni persona e dei suoi legami sociali. Non è più l’uomo, in questo contesto, che nobilita ogni lavoro, lottando anche duramente per elevarlo, trasformarlo, crearlo più ricco di giustizia, equità, intelligenza e cultura per tutti, ma il contrario: è il tipo di lavoro che nobilita l’uomo (l’impiegato sì, l’operaio no). Peggio: non è più scandaloso – come lo era ancora ai tempi di Keynes – nemmeno pensare che si possa avere diritto ad un reddito senza una corrispettiva prestazione lavorativa. Come insegna, su un altro fronte, la finanza allegra e da pescecani che ci ha rovinosamente spinti nella voragine economica e sociale da cui non sarà certo facile uscire. S i potrebbe almeno essere soddisfatti se chi riuscisse ad acquisire i titoli di studio secondari e superiori fosse comparativamente eccellente rispetto ai coetanei stranieri.
Purtroppo, tuttavia, impietose, le rilevazioni Ocse Pisa ci condannano ad essere contenti di mantenere le non proprio brillanti posizioni di graduatoria degli anni scorsi, mentre l’indagine Isfol Piaac compiuta nel biennio 2011-2012 in 18 nazioni europee e in Giappone, Stati Uniti, Canada, Australia e Corea ci informa, addirittura, che un giovane diplomato giapponese registra lo stesso livello di competenze linguistiche, matematiche e di risoluzione dei problemi in ambienti ricchi di tecnologia di un laureato italiano. Non c’è, dunque, qualcosa che non funziona a livello strutturale nel nostro sistema educativo di istruzione e formazione?