La ricerca di un terzo polo, moderato e riformista, ha fatto altre vittime nelle ultime elezioni europee. Toccò a Mario Monti nel 2013 che, malgrado un incoraggiante 9% ottenuto, poco attratto dall’agone politico preferì alla fine rifugiarsi nelle certezze professorali. Stavolta è toccato a Matteo Renzi e Carlo Calenda, duellanti del nulla, rimasti alla fine con un pugno di mosche in mano ai loro ego. La sconfitta esige sempre reazioni conseguenti. Il primo atto non può che essere un deciso passo indietro dei due autori di questo capolavoro all’incontrario (atto da Renzi già preannunciato), capaci di dilapidare un patrimonio che, pur nelle difficoltà, alle politiche del 2022 aveva raccolto un incoraggiante 7,8%. C’era un potenziale di crescita ulteriore in quel primo risultato, che aveva bisogno di armonia e dedizione per svilupparsi, raccogliendo le istanze dei non pochi italiani che – e in particolare nell’area cattolica – faticano a riconoscersi in questo presunto nuovo bipolarismo trainato dagli estremi, “o di qua o di là”, propagandato sin dal 1994 con Berlusconi, ma in realtà mai attecchito nella società italiana (sin dai tentativi, all’epoca, di Mino Martinazzoli e Mariotto Segni, poi interrotti per svariati motivi).
Renzi e Calenda hanno dato vita invece a un loro personale, scriteriato bipolarismo, fatto di battute efficaci sì per strappare applausi nei talk (e a volte con toni tutt'altro che moderati), non per riempire le urne. Hanno rifiutato l’unica possibilità intravista da ogni persona di buon senso, quella di camminare insieme, preferendo giocare a chi era più “smart”. E dimostrando così di essere loro stessi, in fondo, due leader chiusi nel loro mondo e lontani dall’ascolto delle istanze di una base elettorale che cerca un’alternativa seria e illuminata, a livello di proposte e di classe dirigente, diversa nelle analisi e nelle ricette rispetto a quelle proposteci; e in cui il moderatismo non si limiti a essere l’impegno ad “attenuare” e condizionare altre forze e idee politiche ben differenti. Hanno scelto l’uno alleanze improbabili e l’altro uno sdegnato isolazionismo che hanno allontanato molti elettori e non hanno attratto nessuno di quei 10 milioni d’italiani che hanno proprio smesso di votare. Senza capire, questi leader, che la politica è prima di tutto flessibilità intelligente, dote primaria per costruire un disegno sui grandi contenuti della società, davanti al quale anche le differenze personali si attenuano. Incapaci di comprendere che in politica il conflitto serve per diventare protagonisti di decisioni e scelte, non per contendersi un 1% in più o in meno.
Eppure, malgrado la disfatta della non elezione a Strasburgo, resta uno zoccolo di un 6-7% che non merita di essere disperso. Anche Giuseppe De Rita giorni fa ad Avvenire, in un'intervista ad Angelo Picariello, ha ripetuto che «il centro ha un ruolo insostituibile e, presto o tardi, una proposta credibile verrà fuori». Si tratta ora di riprendere la costruzione da queste semi-macerie. Un dibattito è già partito dentro Azione e Italia Viva, anche se con tempi lunghi “all’italiana”. Si annunciano congressi per l’autunno, si prospettano – dopo essersene allontanati – nuovi riavvicinamenti subalterni a partiti maggiori (il Pd). È l’ora, però, di azioni dirompenti. Occorre sancire che, come capita nello sport, un ciclo è finito. Renzi e Calenda potranno tornare utili semmai per altri ruoli. Per aprire un’altra pagina servono oggi nuovi interpreti (da trovare al limite – perché no? – anche ricorrendo a delle primarie popolari). Leader capaci di dar vita davvero a un luogo in cui tradizioni culturali anche diverse – dal cattolicesimo democratico al liberalismo – possano convivere trasmettendo le loro energie morali per edificare un progetto, anziché animare partitini incapaci di fare unione, disperdendo un’eredità e non mostrandosi in grado di dare una risposta a problemi che la nuova fase storica rende sempre più gravi e incombenti.
Come scrisse in una lettera al padre nel 1924 (in ben altro contesto storico) un giovane Montini, futuro papa Paolo VI, «bisogna resistere, anche solo restando come superati, come sconfitti». È la necessaria base da cui riprendere una direzione precisa. Viceversa, dovrebbe esser chiaro a tutti che non esiste un buon vento per chi non sa dove andare.