Dieci anni fa – domenica 12 giugno – una grande mobilitazione di popolo fece fallire i referendum che volevano smontare la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita (Pma). Chiusa la strada della consultazione popolare, senza maggioranze parlamentari in grado di modificare la legge, la minoranza sconfitta nella battaglia referendaria del 2005 ha intrapreso l’unica strada rimasta, quella dei tribunali, sostenuta da una costante campagna di tv e dei principali giornali, tutti schierati contro la 40. Il risultato è noto: dopo dieci anni dall’approvazione della norma, il suo principale pilastro – il divieto di fecondazione eterologa – è stato abbattuto nell’aprile 2014 dalla Corte costituzionale, che con l’ultima sentenza depositata pochi giorni fa ha poi aperto l’accesso alla maternità in provetta anche alle coppie portatrici di malattie genetiche, consentendo loro la diagnosi pre-impianto degli embrioni e la successiva selezione, mentre deve ancora pronunciarsi sulla possibilità o meno di distruggere gli embrioni umani per utilizzarli come "materiale" nei laboratori di ricerca. Alcuni oppositori della legge hanno già annunciato che continueranno la loro battaglia chiedendo l’accesso alle tecniche di Pma anche per
single e coppie omosessuali, e va riconosciuto che questo è il proseguimento logico della loro mobilitazione. La legge 40, infatti, non si limita a regolare una tecnica medica con importanti implicazioni etiche – come ad esempio fa la norma sui trapianti di organo – ma mette in gioco tutta una visione della filiazione e della genitorialità, e quindi della famiglia: le sue vicissitudini sono la premessa e la condizione che rendono possibile la grande rivoluzione antropologica cui stiamo assistendo, quella che ha la sua massima espressione nell’affermarsi del matrimonio tra persone dello stesso sesso. La legge 40 era costruita su un’idea semplice: consentire che in laboratorio si riproducesse quanto accade con la procreazione naturale. L’accesso era, quindi, riservato a un uomo e una donna, in età potenzialmente fertile, entrambe vivi, sposati o conviventi, infertili – quindi si accede alla provetta solo per motivi medici, e non per "libera scelta" procreativa – e con fecondazione esclusivamente omologa (la coppia che vuole un figlio lo genera con i propri gameti). Per la legge 40 non ci sono aggettivi per definire i genitori: quelli biologici, genetici e legali infatti coincidono. E non è possibile generare embrioni per selezionare quelli "perfetti" a scapito degli "imperfetti", perché non si può scegliere di chi essere genitori, neppure quando si ha accesso all’aborto, dove si sopprime certo una vita umana ma non se ne genera un determinato numero a priori per poterne poi selezionare alcune. Coerentemente, si formano embrioni solo per avere figli, e quindi non è possibile generarne "in avanzo", e tanto meno distruggerli in laboratorio. La legge 40 era cioè pensata per assistere le coppie nel concepimento, trasferendolo in vitro per chi avesse problemi di infertilità, senza modificare l’assetto della famiglia naturale, così come riconosciuta anche dalla nostra Costituzione. La fecondazione eterologa introduce invece un nuovo paradigma: quello per cui il figlio non è di chi lo genera fisicamente – quindi, necessariamente, un uomo e una donna che hanno un legame affettivo – ma di chi ha intenzione di avere un figlio, indipendentemente dal sesso e dal fatto di essere in coppia o no. L’utero in affitto completa questo percorso, rendendolo possibile anche a due maschi, o a un uomo solo. Applicando in questo modo la Pma si passa dal diritto dei bambini ad avere un padre e una madre quando non ne hanno più – cioè l’adozione – al suo rovescio, cioè al diritto di chi desidera dei figli di poterne comunque avere. Nel caso di coppie omosessuali sono i figli avuti con le diverse tecniche di Pma a "legittimarne" l’unione. La legge 40 pur non essendo certamente una "legge cattolica" – per il magistero della Chiesa sessualità e procreazione non vanno divise, perché la prima è finalizzata e aperta alla seconda – era stata laicamente costruita a difesa della famiglia naturale, e non è un caso che il suo progressivo smantellamento (a opera di tribunali, ricordiamolo) abbia accompagnato un vero e proprio attacco politico-culturale alla famiglia come «società naturale» così come la definisce anche la nostra Costituzione all’articolo 29. Non si tratta dunque di fenomeni differenti, ma di aspetti diversi dell’emergenza antropologica in cui stiamo vivendo.