Caro direttore,
il 25 novembre scorso Diego Armando Maradona lasciava questa terra prematuramente. La stessa data in cui si celebrava la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che veniva offuscata dalla morte del Pibe de oro. Un uomo che ha vissuto due vite contemporaneamente: la prima da calciatore sublime e intoccabile. La seconda vita: da divo fra vizi ed eccessi fuori dal campo. Droga, alcol, guai con il fisco, diversi figli nati da donne diverse e poi riconosciuti. Insomma, un personaggio da amare allo stadio, ma da condannare nella vita privata. Personalmente, anche essendo suo fan, trovo eccessivo il bombardamento mediatico di questi giorni. I latini ammonivano: «Est modus in rebus». E io non ho condiviso per nulla tutto questo cancan. So pure che un altro detto latino recita: «Parce sepulto», e che Gesù ci insegna a non giudicare, per non essere giudicati. Ma se nascondiamo la verità dei fatti, siamo solo ipocriti. La terra ti sia lieve, caro Diego.
Franco Petraglia, Cervinara (Av)
Caro direttore,
Maradona è stato soltanto uno dei più grandi calciatori del mondo – non dimentichiamo Pelè, almeno altrettanto gigantesco! –, ma le commemorazioni che stanno “intasando”, come una ossessione, i media in questi giorni hanno quanto meno la forma dell’iperbole. Genio, eterno, magico, divino, monumentale, eroe e chi più ne ha più ne metta. Geni ed eroi sono ben altri e dobbiamo solo chiedere perdono a quelli veri. L’umanità ha invece bisogno di sana normalità. Quella normalità capace di capire la pochezza intellettuale di certe commemorazioni e il senso di ciò che scrisse Bertolt Brecht: «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi».
Edgardo Grillo, Cerignola (Fg)
Gentile direttore,
la parabola di Diego Armando Maradona ha tanto da insegnarci. E non uso a caso questa parola, “parabola”. È con questa modalità, infatti, che Gesù parla nei Vangeli anche delle verità più difficili. Ebbene, la parabola di vita di Maradona col suo immenso genio calcistico racchiude in sé i talenti di cui scrive Matteo. C’è poi la pecora smarrita che il Signore non ha mai abbandonato e c’è la casa costruita sulla sabbia e non sulla roccia, come la catapecchia di legno fatiscente in cui viveva con i genitori e le sue quattro sorelle a Buenos Aires, nella poverissima periferia di Villa Fiorito. C’è il giovane ricco che non riesce ad abbandonarsi pienamente al dono di Dio, ci sono i servi infedeli che lo hanno usato e abusato nella sua generosità, c’è l’amministratore disonesto (tanti tra manager, dirigenti sportivi e falsi amici) che ne ha fatto un fenomeno da sfruttare. C’è stato il demonio in persona, che lo ha avvelenato sino all’evasione stupefacente da se stesso. E come il figliol prodigo anche lui, ora, è tornato alla casa del Padre misericordioso. Non sappiamo qual è il giudizio che il Signore darà sulla sua vita, ma sappiamo che la parabola di Diego ci spiega il senso della comunione dei Santi e della intercessione per i defunti. E ci fa capire che forse il suo gol più bello ha bisogno del nostro assist...
Vito Rizzo, Agropoli (Sa)
Caro direttore,
desidero esprimere il mio apprezzamento per il modo con cui avete parlato di Maradona e per lo spazio che gli avete dedicato. Nelle due pagine di giovedì 26 novembre non c’è stata retorica, ma profondità e umanità. Anche la prima pagina ha riportato la notizia della sua morte, ma in modo sobrio, con una bella foto e, soprattutto, dando centralità nel titolo principale alla scuola. Grazie.
Nunzio Marotti, Portoferraio (Li)
Hanno buone ragioni e buoni occhi, i nostri amici lettori. Anche nelle critiche che formulano alla narrazione mediatica della prematura morte di Diego Armando Maradona. Qui però, prima di dire la mia, intendo ragionare brevemente solo di ciò che abbiamo fatto su “Avvenire”. E la lettera del signor Marotti aiuta a capire perché. Sono contento e orgoglioso del lavoro dei miei colleghi e collaboratori: non abbiamo taciuto e nascosto nulla, nel bene e nel male, della vita del campione argentino. E, sia sul giornale del 26 novembre sia nei giorni seguenti, abbiamo saputo mettere in evidenza, riflettendoci su, anche ciò che non era scontato. Capisco, insomma, obiezioni come quelle dei signori Grillo e Petraglia e, anche loro avranno notato, che le abbiamo tenute presenti nel nostro impegno di cronaca e di commento, eppure... . Eppure l’emozione qualche volta necessariamente trova voce e si fa parola scritta. L’emozione, infatti, può anche essere un’irresistibile “restituzione”. Mi spiego. Maradona ha commesso errori e sciupii e però come pochissimi altri ha saputo accendere emozioni felici in miliardi di esseri umani. Un dono straordinario, un fatto eccezionale. Che lui ha fatto accadere e riaccadere praticamente ogni volta che una palla gli stava tra i piedi e un rettangolo di gioco gli si apriva davanti. Basta per assolverlo o, addirittura, per glorificarlo? Si tratta semplicemente di prenderne atto, e nel momento della sua morte di darne definitivamente conto. Su tutto il resto, lo sappiamo e il signor Rizzo ce lo ricorda rileggendo “la parabola di Maradona” con logica evangelica, il giudizio che più conta non è nostro, ma di un Altro, infinitamente più saggio e misericordioso di noi.
Una cosa ancora, però, mi sento di aggiungerla. Anno dopo anno imparo che della vita di una persona resta soprattutto ciò che ha fatto di buono e di bello. E, poco o tanto, possiamo esserne capaci tutti. Così, oggi quando capisco che in una qualunque vicenda d’uomo o di donna c’è un bene – anche uno solo! – più grande di ogni male commesso, sono tra coloro che dicono non solo che è “meglio perdonare ai morti” («parce sepulto», come canta Virgilio e ci ricorda il lettore Petraglia), ma che bisogna essere liberi di esprimere un’affettuosa gratitudine, di coltivare una memoria splendente, di saper piangere e pregare perché è così che quaggiù riusciamo a non perdere quella grandezza che abbiamo incontrato e capito e a non lasciarla perdere. Una grandezza che è vera e preziosa anche se ha i suoi limiti, come tutto qui e ora (e Orazio aveva ragione a ricordarci che «est modus in rebus», che sempre “c’è una misura nelle cose”). La limitata e un po’ sporca grandezza degli uomini è un’eco unica e speciale della grandezza del Dio-Amore che ci è stato rivelato. Lo è anche in modi che non avremmo mai immaginato. Ma è così. Perché noi fatichiamo a pensare Lui, ma Lui pensa a noi. E ci sorprende e ci fa sorridere. Magari anche solo con l’allegria accesa dall’incredibile serie di meravigliosi calci a un pallone di un campionissimo piccolo piccolo.