Nelle ultime settimane la Russia di Putin ha deciso di ricoprire un ruolo da protagonista nel conflitto in Siria contro il Daesh. La tradizionale alleanza con il regime di Assad sembra essere tornata tra le priorità del governo di Mosca. Inoltre, in questi ultimi giorni, l’abbattimento del caccia russo al confine turco-siriano ha incrinato le relazioni diplomatiche con la Turchia aggiungendo un elemento ulteriore di complessità e incertezza al conflitto in corso. L’azione bellica russa, comunque, ha il
sapore della scommessa poiché arriva in un momento di profonda difficoltà per l’economia e la società. L’ultimo rapporto pubblicato dalla Banca mondiale a settembre delineava un quadro a tinte fosche.
La recessione in corso non sembrava destinata ad arrestarsi. Per il 2015 era prevista una diminuzione del Pil su base annua del 3,8%, che avrebbe aggravato ulteriormente una situazione che tra le altre cose ha già visto aumentare la percentuale di persone che vivono sotto il livello di sussistenza dal 10,8% del 2013 al 15,9% del marzo 2015, superando i venti milioni di persone. La principale causa del declino in corso è stata la
diminuzione del prezzo mondiale del petrolio che tra il gennaio del 2014 e l’agosto del 2015 è calato di circa il 60%. L’economia russa è infatti dipendente dall’esportazione di gas e petrolio. Nel 2013 quasi il 72% dell’export russo era costituito da idrocarburi, mentre i beni manufatti contribuiscono alle esportazioni solo per il 16,5%. Tra questi, peraltro, solo il 10% nel 2013 rientrava nella categoria high-tech. Il crollo del prezzo del greggio, dunque, negli ultimi tempi ha determinato una riduzione pronunciata degli introiti fiscali, una svalutazione del rublo (tra novembre del 2013 e l’agosto del 2015 il tasso di cambio col dollaro Usa è passato da 33 a 70 rubli per dollaro), un aumento del tasso di inflazione al 16,9% lo scorso marzo e una riduzione dei consumi delle famiglie nel primo trimestre 2015 del 9% su base annua. Gli investimenti in capitale fisso nel 2014 erano già diminuiti del 2,7% rispetto al 2013, e nell’anno in corso hanno continuato a contrarsi. In un’economia così vulnerabile, in quanto dipendente dagli idrocarburi, e con un settore manifatturiero in declino, l’unico comparto in salute sembrava essere quello della produzione di armamenti, tanto che nel periodo 2008-2013 la Russia ha pesato per il 27% delle esportazioni a livello globale di armi convenzionali. Rispetto all’evoluzione dell’economia russa, solo pochi mesi fa la Banca mondiale delineava alcuni scenari alternativi possibili. Uno era caratterizzato da un trend ribassista dei prezzi del petrolio, e che quindi prevedeva il ritorno a una eventuale crescita del Pil eventualmente solo nel 2017. Uno scenario alternativo caratterizzato da un rialzo significativo dei prezzi del petrolio prevedeva viceversa un ritorno a tassi positivi di crescita già nel 2016. Il primo scenario si basava su un prezzo del petrolio di 50 dollari nel secondo semestre del 2015, e anche il ministero delle finanze russo aveva sviluppato il suo piano economico per il 2016 ipotizzando un prezzo intorno a quel valore. I dati reali fino a poche settimane fa, però, erano peggiorativi rispetto a queste previsioni. Nel mese di agosto, infatti, il prezzo del greggio è sceso sotto la soglia dei 43 dollari al barile, ma secondo il Fondo monetario internazionale la probabilità che il prezzo sarebbe rimasto al di sotto dei 50 dollari era intorno al 70% e quella che sarebbe sceso al di sotto dei 40 dollari era stimata intorno al 39%. In breve le previsioni del Fmi nel mese di agosto propendevano per uno scenario anche peggiore delle più pessimistiche stime della Banca mondiale e sicuramente lontano dalle attese del ministero della finanze russo. Negli ultimi due mesi la scommessa militare russa sembrava avere contribuito a modificare le aspettative in questo senso. Il prezzo del petrolio non era più in caduta libera. Infatti le previsioni Fmi pubblicate nella prima decade di novembre indicavano che la probabilità di un petrolio sotto i 50 dollari era diminuita al 60%, e con una probabilità decisamente inferiore (30%) si stimava che il prezzo sarebbe calato al di sotto della soglia dei 40 dollari. In breve, se sulla base delle previsioni elaborate solo pochi mesi fa in alcun modo la Russia sarebbe riuscita a ritornare su un percorso di crescita economica in tempo breve, in seguito alla recrudescenza del conflitto in Siria queste aspettative sembravano essersi modificate a vantaggio di Mosca, e un leggero miglioramento dei conti russi appariva ipotizzabile dopo che il petrolio era risalito sopra i 46 dollari nell’ultima settimana di novembre. Negli ultimi giorni, però, lo scenario si è nuovamente modificato. Il brent, infatti, sta oscillando intorno ai 40 dollari al barile e le aspettative ribassiste sembrano essere aumentate. Questo è dipeso dalla dichiarazione rilasciata solo pochi giorni fa, in sede Opec, dall’Arabia Saudita, che ha confermato di non volere alcuna riduzione della produzione, che favorirebbe un rialzo dei prezzi. In questo impegno contro la riduzione dell’offerta i sauditi sono affiancati dal governo iraniano che si appresta ad aumentare nuovamente le esportazioni di greggio in seguito alla rimozione delle sanzioni prevista nell’Iran
deal. A questo punto, le aspettative rialziste di cui la Russia avrebbe beneficiato appaiono disattese e ulteriori danni alla sua già fragile economia saranno ancora più evidenti e pervasivi nei mesi a venire. La 'scommessa bellica' russa avrà sicuramente un effetto di impoverimento ancora più pronunciato, che sarà pagato principalmente dalla popolazione a più basso reddito. In ogni caso, anche nella circostanza in cui il prezzo del petrolio fosse aumentato in via permanente, la Russia avrebbe goduto di benefici solo nel breve periodo. Qualsivoglia vantaggio sarebbe stato di natura transitoria e comunque destinato a scomparire nel tempo. Nel medio periodo, infatti, i problemi dell’economia sarebbero tornati evidenti con prepotenza. La spiegazione di ciò è semplicemente nella stessa struttura del sistema economico russo. L’eccessiva dipendenza dall’esportazione di idrocarburi è una fragilità: essa non consente alla società di intraprendere un percorso di sviluppo economico equilibrato e soprattutto duraturo. L’azione militare russa, quindi, a dispetto dell’idea corrente, non arresterà il progressivo declino economico del Paese. A dispetto dei proclami muscolari, la scommessa bellica sarà comunque perduta.