Ma gli ultimi drammatici consuntivi su disoccupati e precari (con il dettaglio sconvolgente di un Sud dove ormai più di un giovane su due non ha lavoro), la certificazione di una spremitura fiscale giunta a livelli intollerabili, l’ennesima pesante caduta del prodotto interno lordo, sono tutti elementi di un quadro già largamente delineato e dunque in buona misura prevedibile: certamente dall’estate-autunno del 2011, ma in realtà anche prima di allora. Perché le conseguenze delle drastiche manovre di risanamento messe in atto a partire dal giugno-luglio di due anni fa, imposte da un’emergenza finanziaria maturata in decenni di inerzie e di sventatezze e divenuta stringente per la crisi internazionale, non potevano essere molto diverse da quelle che ci troviamo ora a valutare.
Sono un po’ come gli effetti collaterali di un farmaco che aggredisce con successo la malattia mortale e ne arresta il decorso funesto, infliggendo però all’organismo altre sofferenze, che ora vanno affrontate con pari decisione. Ma anche – ed è questo il punto – con una dose supplementare di serietà e di onestà intellettuale. Proprio quelle virtù venute a mancare di nuovo negli ultimi mesi, innescando una delle micce, probabilmente quella decisiva, che hanno fatto deflagrare il risultato elettorale di domenica e lunedì scorsi.
Ecco perché adesso sarebbe altamente irresponsabile continuare nel tendenzioso rimpallo delle colpe o, peggio, cominciare ad accumulare le munizioni per una nuova battaglia elettorale. Non sarà un caso se, pochissime ore dopo la diffusione delle cifre Istat, dal mondo delle agenzie di rating arrivano nuovi moniti sull’ulteriore pressione al ribasso connessa alla nostra instabilità politica. O se qualche esperto di area tedesca azzardi addirittura la prospettiva per l’Italia, nel caso non riesca a convincere la maggioranza dei suoi cittadini a restare nelle regole dell’euro, di 'tornare alla sua vecchia moneta'.
La verità è che ci troviamo oggi al culmine di un doloroso percorso di duro risanamento che, tutti insieme, più o meno di buon grado, abbiamo accettato di sobbarcarci, nella speranza che lo sforzo collettivo sarebbe stato accompagnato da una riforma minima delle regole democratiche e istituzionali (in primis quelle elettorali), tale da mettere il Paese in condizione di rilanciarsi. Tutto ciò non è avvenuto e gli elettori ne hanno tratto a modo loro le conseguenze. Ma come in un autolesionistico gioco dell’oca, rischiamo ora di tornare al punto di partenza, al prezzo di 'sacrificare i sacrifici', nell’illusione di una immediata rivincita o di un’ulteriore decisiva spallata.
È chiaro che il quadro parlamentare uscito dalle urne non autorizza previsioni ottimistiche sulla durata della legislatura. Ma un conto è rassegnarsi fin d’ora a un 'remake' senza sbocchi della rappresentazione suicida andata in scena nei primi due mesi dell’anno. Un altro è ricercare una minima unità d’intenti, tra vecchi e nuovi protagonisti del palcoscenico politico, che consenta un tratto di strada legislativo proficuo. È semplicemente impensabile tornare davanti ai cittadini a mani vuote, senza una riforma elettorale che restituisca loro il diritto di scelta effettivo, senza intaccare sostanzialmente lo zoccolo duro della spesa politica, senza prosciugare almeno in parte le fonti dei finanziamenti illeciti e dello scambio immorale tra interesse pubblico e privato. In poche parole, senza dimostrare di aver imparato la lezione.