Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato una lettera al Presidente Napolitano di una ricercatrice italiana di prestigio, autrice di scoperte importanti sulle cause genetiche del linfoma, che a 47 anni e con tre figli al seguito ha deciso di andarsene dall’Italia. Rita Clementi, stanca di contratti instabili, di passare come una tarzan della ricerca da un Istituto all’altro, ha gettato la spugna e dice al capo della Nazione: «Qui la ricerca è ammalata, me ne vado». Nella lettera della signora Clementi c’è rabbia e indignazione. L’esperienza che ha fatto fin qui del nostro mondo universitario le fa dire che è stanca di essere italiana. Sono dell’idea che per voler smettere di essere connazionale di Michelangelo e di Dante Alighieri ci vuole veramente un gran motivo, se esiste. Ma la denuncia della signora va presa sul serio, e non rubricata velocemente sotto l’etichetta (maledetta come tutte le etichette applicate ai casi personali) di: «fuga dei cervelli». Qui non si tratta solo di una che fa armi e bagagli perché altrove si potrà trovare meglio. Meglio pagata e meglio rispettata. No, qui c’è una donna di valore che denuncia una immoralità diffusa nel mondo universitario e della ricerca. Una immoralità che al di là di questo singolo caso è percepita diffusamente. Una immoralità per così dire di sistema. Il cui esito è una stagnazione nella ricerca in Italia.La signora nella sua lettera racconta la serie di frustrazioni che hanno segnato una carriera che invece scientificamente aveva conosciuto a livello internazionale riconoscimenti importanti e, quel che più conta, la delusione per una che ha sottomesso i propri interessi e la propria vita privata alla missione di aiutare con la ricerca chi soffre. Non saranno forse molti i casi di questo genere. Ma nemmeno pochi. E hanno un grande «peso specifico» nella qualità generale dell’Università. La signora invoca un sistema meritocratico, e la rimozione di persone che nonostante manifesta propensione al «maneggio» (riconosciuta addirittura dalla magistratura) continuano a sedere con il consenso dei colleghi nei luoghi dove si decidono posti e carriere. Una immoralità di singoli che diviene immoralità di sistema. Il governo sta pensando di varare una riforma per l’Università che, a quanto è dato di sapere, vorrebbe finalmente intaccare questa situazione. Speriamo. Forse per la signora Rita è tardi, non lo sia per altri. Del resto il problema della «immobilità» del sistema universitario non si registra solamente nei campi della ricerca scientifica applicata in ambiti come il biomedico in questione nella lettera. Anche nel campo umanistico ( dalla letteratura alla storia dell’arte) il deficit di capacità di ricerca e di trasmissione adeguata della tradizione alle giovani generazioni è lampante. Il Presidente si è mostrato in passato sensibile a questi temi e lo farà probabilmente anche in questo caso. Ma il problema non può essere risolto neppure dall’impegno della più alta carica dello Stato. Occorre un cambio di mentalità generale, di costume. Il governo può favorirlo, e le leggi possono evitare di cristallizzare privilegi e rendite di posizione. Ma sarà solo la valorizzazione della passione e la capacità di sacrificio di più e più persone come Rita Clementi che potrà rendere migliore l’Università italiana.