martedì 30 giugno 2009
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Ieri il Corriere della Sera ha pubbli­cato una lettera al Presidente Na­politano di una ricercatrice italiana di prestigio, autrice di scoperte impor­tanti sulle cause genetiche del linfo­ma, che a 47 anni e con tre figli al se­guito ha deciso di andarsene dall’Ita­lia. Rita Clementi, stanca di contratti instabili, di passare come una tarzan della ricerca da un Istituto all’altro, ha gettato la spugna e dice al capo della Nazione: «Qui la ricerca è ammalata, me ne vado». Nella lettera della signora Clementi c’è rabbia e indignazione. L’esperienza che ha fatto fin qui del nostro mondo universitario le fa dire che è stanca di essere italiana. Sono dell’idea che per voler smettere di essere connazionale di Michelangelo e di Dante Alighieri ci vuole veramente un gran motivo, se e­siste. Ma la denuncia della signora va presa sul serio, e non rubricata velo­cemente sotto l’etichetta (maledetta come tutte le etichette applicate ai ca­si personali) di: «fuga dei cervelli». Qui non si tratta solo di una che fa armi e bagagli perché altrove si potrà trovare meglio. Meglio pagata e meglio rispetta­ta. No, qui c’è u­na donna di va­lore che denun­cia una immora­lità diffusa nel mondo universi­tario e della ri­cerca. Una im­moralità che al di là di questo sin­golo caso è per­cepita diffusa­mente. Una immoralità per così dire di sistema. Il cui esito è una stagnazione nella ricerca in Italia.La signora nella sua lettera racconta la serie di frustra­zioni che hanno segnato una carriera che invece scientificamente aveva co­nosciuto a livello internazionale rico­noscimenti importanti e, quel che più conta, la delusione per una che ha sot­tomesso i propri interessi e la propria vita privata alla missione di aiutare con la ricerca chi soffre. Non saranno forse molti i casi di que­sto genere. Ma nemmeno pochi. E hanno un grande «peso specifico» nel­la qualità generale dell’Università. La signora invoca un sistema meritocra­tico, e la rimozione di persone che no­nostante manifesta propensione al «maneggio» (riconosciuta addirittura dalla magistratura) continuano a se­dere con il consenso dei colleghi nei luoghi dove si decidono posti e car­riere. Una immoralità di singoli che di­viene immoralità di sistema. Il governo sta pensando di varare una riforma per l’Università che, a quanto è dato di sapere, vorrebbe finalmente intaccare questa situazione. Speria­mo. Forse per la signora Rita è tardi, non lo sia per altri. Del resto il proble­ma della «immobilità» del sistema u­niversitario non si registra solamente nei campi della ricerca scientifica ap­plicata in ambiti come il biomedico in questione nella lettera. Anche nel campo umanistico ( dalla letteratura alla storia dell’arte) il deficit di capa­cità di ricerca e di trasmissione ade­guata della tradizione alle giovani ge­nerazioni è lampante. Il Presidente si è mostrato in passato sensibile a que­sti temi e lo farà probabilmente anche in questo caso. Ma il problema non può essere risolto neppure dall’impe­gno della più alta carica dello Stato. Occorre un cambio di mentalità ge­nerale, di costume. Il governo può fa­vorirlo, e le leggi possono evitare di cri­stallizzare privilegi e rendite di posi­zione. Ma sarà solo la valorizzazione della passione e la capacità di sacrificio di più e più persone come Rita Clemen­ti che potrà rendere migliore l’Univer­sità italiana.
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