Il sisma ha di nuovo sollevato il velo sulla buona Italia Ogni terremoto è una terribile storia a sé, ma nessun fenomeno come la terra che trema riesce a mettere in campo un vocabolario tutto proprio, un alfabeto del dolore e, di riflesso della solidarietà, fatto di termini essenziali ma che, al semplice contatto con la cronaca e in forza di una naturale emotività, la trasformano in racconto. Le parole del terremoto sembrano non appartenere ad altro che a quel tipo di evento, che a ogni diversa occasione le richiama a sé come a ricomporre una sorta di lessico identitario, valido per tutti e che omologa, in qualche modo, anche la comunicazione dei diversi mezzi in campo. Le vittime, la paura, l’angoscia. Il cumulo di macerie, i palazzi e le case sventrate, il paese che non esiste più. Le tendopoli e i mezzi di soccorso; i salvataggi, gli aiuti, gli eroismi conosciuti e no. Le storie, le tante storie delle vittime e dei salvati.
Le scoperte dei fabbricati di argilla, l’infamia degli sciacalli. I primi accenni alla ricostruzione. Sono le parole, che non cambiano mai, di un racconto antico che, a intervalli sempre troppo stretti, si fa presente dal vivo in un’area o l’altra di un Paese fin troppo ricco di tali memorie. Dal Friuli al Belice, all’Appennino Emiliano e a tutto quello centrale, Assisi, la Valnerina, fino alle zone interne di Basilicata e Irpinia, il più rovinoso degli ultimi decenni per numero di vittime e per una ricostruzione fallita nei tempi e disastrosa nei modi.
Più delle stesse immagini, anche quelle più drammatiche (anch’esse si somigliano tutte perché la terra in collera non produce altro che distruzione e crolli) è dunque il lessico del dolore a raggrumarsi intorno agli stessi termini, a una sfera limitata di aggettivi, finanche a espressioni che si rincorrono di tragedie in tragedie, e che nella loro essenzialità aprono invece vasti fronti narrativi. Il dolore, l’angoscia e la paura da una parte, gli slanci di generosità, l’altruismo e la solidarietà dall’altra sono sentimenti e stati d’animo posti di fronte a un contrasto irreversibile, ma che il sisma, in pochi attimi, fa convivere in maniera innaturale; e tanto infida da far sorgere l’inganno che anche tutto il bene che immediatamente si raduna e si raccoglie intorno al disastro appena compiuto, appartenga e sia frutto anch’esso del male.
È la sovrattassa di perfidia che ogni disastro impone, come a reclamare un proprio riscatto immediato, e prendersi il diritto di affermare che senza quello scuotimento di terra, nessuno avrebbe potuto vedere le migliaia di volontari all’opera, i loro sacrifici e il loro eroismo, o avrebbe mai conosciuto piccoli centri così ricchi di storia e di umanità. Nessuno avrebbe scoperto il velo su una bell’Italia nascosta, e su persone e famiglie che ora fanno coraggio, dalle loro tendopoli nel reatino, nel Lazio, nelle Marche e nell’Umbria a un’intera nazione. Ma il terremoto è un mostro e resta mostro.
E non può abbellirsi la faccia facendosi specchio dei volti puliti di chi è accorso a salvare, spalare, dare conforto e speranza. Quella di chi si oppone al male è sempre una storia che vale per sé e che al male niente deve. Perché il bene, proprio come la pace con la guerra, è molto più del suo contrario; e men che mai può esser visto come una sua conseguenza occasionale, o una semplice forma di reazione e di lotta contro i tanti mostri che attraversano le nostre vite. Rispetto ad altre tragedie, il terremoto sembra avere ormai preso subdolamente a sé questo compito di natura per così dire 'pedagogica'. La nostra carta geografica del dolore è in realtà segnata, da secoli, dei luoghi in cui la terra ha tremato.
Molta parte della nostra storia è raccontata ed è il seguito, troppo spesso non esaltante, di pochi secondi di ribellione della terra. Il lessico del terremoto è un lessico antico di parole come pietre. E più fragili sono sempre le pietre.