I dati macro-econo-mici dell’ulti-mo trimestre del 2012 resi noti ieri indicano un calo del Pil dello 0,9% in Italia e dello 0,6% in Germania e nell’Eurozona. Nella cattiva notizia, c’è una buona notizia: la miopia dell’eccesso di rigore europeo non fa ormai più differenze nel produrre i suoi effetti nefasti tra Paesi del Nord e Paesi del Sud (anche se a portata ed estensione, le conseguenze al Sud sono ben più gravi).Nello stesso giorno Caritas Europa fa presenti le conseguenze dell’iper-rigorismo, spiegando che quasi un terzo dei bambini in Grecia, Italia, Spagna e Irlanda rischia la povertà. Solo qualche giorno fa il gran consulto dei leader continentali per risolvere i problemi del malato-Unione Europea si è concluso in modo piuttosto deludente. Nel nuovo bilancio europeo in vigore per i prossimi anni ci sono infatti più soldi per curare i sintomi (occupazione giovanile e coesione sociale), ma meno soldi per curare la malattia (tagli a infrastrutture e ricerca). Stretta tra la morsa formidabile di egoismi nazionali e teorie perniciose, la Ue, nata da un grande slancio ideale, rischia di morire nel grigiore dei calcoli col bilancino del presunto proprio interesse. Da italiani, non senza amarezza, ci sentiamo un po’ come quel coniuge (in fedeltà alla tradizione di figure bibliche alla profeta Osea) che tiene in piedi il matrimonio per il bene dei figli e per il valore che dà al vincolo anche se il proprio marito/moglie (la Germania) ha dimostrato entusiasmi per qualcun altro nel recente passato (i tedeschi e i Paesi dell’Est) e ora non pare proprio pronto a gettarsi nel fuoco per noi. Ma nelle relazioni tra persone e tra Stati, senza generosità, dono e gratuità non si genera superadditività.Al contrario, abbandonati nei confini degli interessi personali e nazionali, risorse e potenzialità avvizziscono. In questo avvio del 2013 speravamo che ci sarebbe stata un’occasione per dotare l’ansimante pulmino dei Ventisette di un motore più scattante per contrastare i fuoristrada truccati di Giappone e Usa che, per rilanciare le loro economie, puntano esplicitamente o implicitamente sulla svalutazione del cambio mettendoci in difficoltà. Così non è stato, anche perché c’è una teoria pericolosa che viene utilizzata per avallare gli egoismi individuali. Si tratta della teoria del "rigore espansivo" che stabilisce che la riduzione di spesa pubblica sarebbe di per sé capace di produrre effetti positivi sulla crescita economica. Come sempre accade in questi casi il problema non è nell’eleganza formale dei modelli, ma nell’implausibilità delle loro assunzioni. Nella teoria del rigore espansivo la spesa pubblica non produce alcun beneficio in termini di crescita economica e nel migliore dei casi ha effetti neutrali.Sempre in questi modelli, individui lungimiranti e pazienti sarebbero invece in grado di capire in anticipo che la riduzione della spesa pubblica farà ridurre in futuro le tasse e, quindi, già oggi aggiustano le loro scelte, consumando di più e facendo ripartire l’economia. Se, per caso, i portafogli fossero vuoti (cioè pesassero quelli che vengono definiti "vincoli di liquidità") il problema sarebbe comunque risolto da istituti finanziari altrettanto lungimiranti che anticiperebbero ai consumatori i soldi necessari. Ve l’immaginate, voi, l’uomo della strada italiano esasperato e persino sull’orlo della soglia di povertà che ragiona in questo modo? E li vedete istituti finanziari, con i problemi che le banche hanno di questi tempi, pronti a prestare soldi per finanziare la ripartenza? Non c’è quasi bisogno di andare ad analizzare le ultime dinamiche dei consumi per capire che non funziona affatto così. Gli italiani, con i loro comportamenti di spesa, sembrano di non credere molto alle promesse elettorali di riduzione di tasse delle forze politiche. E, comunque, o non ci credono o non hanno energie per dimostrarlo.Insomma, quella che Paul Krugman chiama "la fata fiducia" – ovvero lo slancio espansivo che nascerebbe, anche grazie alla fiducia dei mercati, dalle politiche di rigore di bilancio – non esiste. Per fortuna per la prima volta un’istituzione considerata solitamente conservatrice come il Fondo monetario internazionale ci viene in soccorso con un lavoro di ricerca empirico sulla storia recente di numerosi Paesi dove documenta che i cosiddetti "moltiplicatori della spesa pubblica" sono maggiori di uno. Ovvero che la spesa pubblica non è improduttiva, ma produce un effetto sul Pil più che proporzionale rispetto alle somme spese. A dire il vero, tutto questo era già ben noto, grazie a uno studio di Christina Romer di oltre un anno fa che dimostra come i rigoristi a oltranza siano mossi da questioni puramente ideologiche e in forte contrasto con l’evidenza empirica la quale, a sua volta, dimostra inconfutabilmente la rilevanza della politica fiscale e la sua efficacia nel ridurre la disoccupazione. Disoccupazione che ha raggiunto picchi insostenibili proprio per l’eccessiva insistenza sul rigore pur in periodi di recessione e crisi.Va nella stessa direzione il recentissimo invito di Larry Summers, sulle colonne del "Financial Times", a spostare il dibattito dalla preoccupazione sui bilanci pubblici, che – pur legittima nel medio-lungo termine – è del tutto fuori luogo in questo momento congiunturale. Crescita e occupazione devono recuperare il ruolo centrale nel dibattito di politica economica. Questo non vuol dire che non dobbiamo fare attenzione al bilancio e dobbiamo passare all’eccesso opposto della spericolata politica giapponese dove con un rapporto debito/Pil del 236% si è deciso di puntare ancora sull’aumento della spesa. Non siamo all’aut aut: soluzione-Fiscal Compact o soluzione-Giappone. La via più saggia non passa per gli estremi, ma in un punto mediano tra essi.