Nel 1980, nove anni prima della caduta del Muro di Berlino e della successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica, le Olimpiadi di Mosca furono caratterizzate non solo dal boicottaggio degli Stati Uniti e di altre 64 nazioni a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, ma di una clamorosa "scissione" tra Olimpiadi appunto e Paralimpiadi. Queste ultime, infatti, non si tennero a Mosca parallelamente ai Giochi tradizionali, ma ad Arnhem, nei Paesi Bassi. L’allora regime comunista, infatti, riteneva non consona all’immagine di grande potenza mondiale l’esibizione sportiva di persone con disabilità. E si spinse fino ad affermare, con sprezzo del ridicolo, che in Russia non c’erano giovani con handicap e dunque non c’era necessità di organizzare le gare internazionali.
Oggi la Storia in qualche modo si ripropone, sotto forma di nemesi, con la non ammissione degli atleti paralimpici di Russia e Bielorussia ai Giochi di Pechino 2022 a causa dell’invasione dell’Ucraina. Solo che anziché colpire la "tirannide" che ha scelto di accendere la guerra in un Paese fratello, si finisce così per danneggiare il "popolo" e, all’interno di questo, la parte che già sconta maggiori difficoltà come i disabili. Persone normali ma con bisogni speciali. Atleti particolari che dimostrano speciali capacità di resilienza e testimoniano come la valorizzazione della diversità possa arricchire il mondo e ognuno di noi. Penalizzare proprio questa categoria di atleti a causa di scelte non loro, nelle quali non sono neppure indirettamente coinvolti, appare non solo contraddittorio con il messaggio olimpico, ma decisamente controproducente sul piano politico e più ancora umano.
La scelta iniziale del Comitato Paralimpico Internazionale (Ipc) di ammettere ai Giochi gli atleti russi e bielorussi facendoli gareggiare sotto la propria bandiera come "neutrali", bandendo quelle nazionali e i relativi inni, poteva rappresentare un equo compromesso tra le (sacrosante) ragioni per le quali dare un segnale forte di esclusione a Mosca e Minsk, senza però penalizzare del tutto gli incolpevoli atleti. Le pressioni di diversi Paesi e l’accusa del Cio alla Russia di aver apertamente violato la tregua olimpica, invece, hanno convinto l’Ipc a decretare l’esclusione totale di Paesi e atleti. Con ciò sancendo che né le Olimpiadi, i giochi che dovrebbero essere espressione di fratellanza universale, né le Paralimpiadi – che nella fratellanza sottolineano il valore dell’inclusività di tutte le persone – riescono a restare immuni dai condizionamenti politici e, purtroppo, dai semi di divisione e odio che gli scontri internazionali continuano a spargere.
Gli stessi semi di divisione e di odio che occorre evitare germoglino ora nelle nostre società. Vigilando perché la giusta opposizione alla criminale strategia di Vladimir Putin non tracimi nell’indignazione verso l’intero popolo russo – in gran parte vittima prima di quelle stesse decisioni scellerate del suo presidente – o, addirittura, nella diffidenza e l’ostracismo verso tutto ciò che viene da oltre gli Urali. Qualche segnale di "discriminazione indiscriminata" lo abbiamo già potuto cogliere nel paradossale caso, poi rientrato, delle lezioni su Dostoevskij cancellate. L’esclusione di eminenti artisti russi dalle nostre scene si giustifica solo per la loro appartenenza allo stretto giro di potere di Putin, e non può essere generalizzata a chiunque provenga dal Paese degli zar. Così come singoli comportamenti scorretti alle Paralimpiadi potevano giustificare squalifiche personali. La propaganda a favore dell’autocrazia o, peggio, dell’invasione dell’Ucraina sono insopportabili, ma la libertà di coscienza, di pensiero e pure di espressione (quando rispettosa delle persone e della verità) non si possono proibire. Anzi, vanno da noi garantite.
L’esclusione, il rifiuto dell’altro, l’etichettatura di popoli ed etnie non sono i valori che ci appartengono, non è su questo che in Europa sono stati costruiti decenni di pace e progresso, ma l’esatto contrario. Non è questa l’idea di democrazia per la quale combattiamo oggi a fianco dei fratelli ucraini.