Il Dossier Caritas 2010 sull’immigrazione in Italia ci ha ricordato ancora una volta che non è possibile chiudere gli occhi di fronte ad un fenomeno che cresce a vista d’occhio. Si tratta ormai di 5 milioni di persone, che vivono nelle nostre città in media da 7 anni, hanno titoli di studio paragonabili ai nostri, contribuiscono per il 4% al gettito contributivo e per quasi l’11% al nostro Pil, costituiscono più del 6% degli alunni delle nostre scuole, più dell’11% dei nuovi nati sul territorio italiano, più del 10% dei lavoratori dipendenti, e più del 70% degli assistenti familiari che accudiscono bambini e malati nelle nostre famiglie. Circa 400mila stranieri sono titolari d’impresa, amministratori e soci di aziende e ogni 30 imprenditori operanti in Italia, uno è immigrato. L’aumento è stato di circa 3 milioni di unità in 10 anni e di quasi un milione negli ultimi due anni, e più di mezzo milione di persone hanno acquisito la cittadinanza italiana al ritmo di oltre cinquantamila l’anno. Ma allora perché l’integrazione appare ancora per molti di loro di là da venire, come osserva uno straniero intervistato dal Censis, che ha detto: «Quando vediamo le persone che hanno vissuto qui per 15 anni ci viene paura e disperazione, perché si trovano nella stessa situazione in cui sono arrivate 15 anni fa, se non peggio».Due sono i fattori principali di cui tenere conto. Da un lato bisogna considerare che vi è una vasta area oscura di immigrazione soggetta a sfruttamenti e rischi di ogni genere. Il che si sposa con le tendenze allo sfarinamento del modello di lavoro e di produzione tradizionale, sostituito progressivamente da forme più fluide di interazione lavorativa e sociale, che significano anche però maggiore rischio di esclusione. Un mercato del lavoro flessibile e individualizzato non comporta automaticamente una riduzione delle possibilità di ascesa e delle opportunità sociali ed economiche per tutti, ma se il fenomeno tende a radicalizzarsi e si accompagna a un rigida tendenza alla tutela dei già garantiti il prezzo finiscono per pagarlo giovani e immigrati, cioè – ecco il paradosso – il futuro di quel mercato e della società che lo esprime. Anche la percezione indistinta del fenomeno migratorio, gli errori di valutazione, la residualità e la sfiducia, hanno a che fare in buona parte con questi processi contraddittori apertisi nel contesto economico e sociale, in Italia e altrove, nella seconda metà del ’900. Per cui non c’è da meravigliarsi se da un lato aumenta la stanzialità geografica, ma dall’altro rimangono scarse (o molto scarse) le possibilità di promozione e non procede l’integrazione. Non bisogna però sottovalutare, accanto a ciò, il peso della mancanza di un’idea chiara e di una vera politica di integrazione, che si evidenzia nella debolezza delle reti di protezione sociale, dei programmi pubblici di sostegno alla crescita professionale, della cooperazione con i Paesi di partenza, delle azioni volte a favorire lo scambio e la relazione costruttiva tra italiani e stranieri. E mentre da molte parti si dà per scontato che l’inclusione sia un qualcosa che scatta necessariamente, perché viviamo in una democrazia nella quale l’eguaglianza delle opportunità e il riconoscimento dei diritti sono sanciti da norme e direttive a tutti i livelli, dobbiamo registrare dai Paesi europei di più lunga tradizione migratoria del nostro quali fallimenti riservino i due modelli contrapposti dell’
assimilazionismo, prevalente in Francia, e del
multiculturalismo, variamente sostenuto in Germania dopo l’abbandono della vecchia politica di rotazione, secondo la quale i "lavoratori ospiti" (questo il significato di
Gastarbeiter dovevano tornare prima o poi alle regioni di origine e dunque non valeva la pena integrarli. Non funziona, in altre parole, né per gli immigrati stessi né per le società che li accolgono, il tentativo di piegarli forzatamente a una identità nazionale e a riferimenti a loro estranei; e non funziona nemmeno il pretendere di convivere sullo stesso territorio congelando le differenze tra gruppi etnici e nazionali, senza predisporre un terreno di confronto e di scambio; ma non funzionano neanche il
"laissez faire" all’italiana e la mancanza di una seria strategia d’integrazione che recuperi e attualizzi, su una scala oggettivamente senza precedenti, la storica vocazione interculturale di moltissime comunità locali della Penisola.