«Se vuole, lei può entrare», mi disse, gentile, il poliziotto che tentava di tenere a bada la folla che si accalcava davanti alla Parrocchia di San Nicola, dove poco prima era stato barbaramente ucciso il parroco, don Giuseppe Diana. Entrai. Peppino era ancora là, riverso in una pozza di sangue, appena dietro la porta d’ingresso. Sul presbiterio, attoniti, muti c’erano l’allora vescovo di Aversa, Lorenzo Chiarinelli, e pochi preti. La notizia ancora non si era propagata. Il vescovo ci volle accanto a sé in quel momento terribile per elevare, stringendoci all’altare, la nostra preghiera al Signore della vita. Eravamo sconvolti. Per la prima volta, a memoria d’uomo, nella nostra diocesi veniva ucciso un prete e per giunta in chiesa. A nessuno era dato di sapere il motivo dell’efferato omicidio, ma che dietro ci fosse la mano della camorra era evidentissimo. Don Peppino. Nato e cresciuto a Casal di Principe, nel suo paese svolgeva anche il ministero pastorale. Aveva solo 38 anni quando quella mattina, solennità di San Giuseppe, e sua festa onomastica, si sentì chiamare mentre si accingeva a celebrare la Messa: «Don Peppì!». Neanche il tempo di voltarsi e il vigliacco gli aveva già esploso contro 4 colpi di pistola. Casale rimase sgomenta. Nelle prime ore della mattinata e fino a sera ci fu nel paese un silenzio di tomba. Poi, timidamente, cominciarono le prime reazioni. Apparvero i primi striscioni davanti alle chiese: «Don Peppino come don Puglisi. Come il vescovo Romero». Il papa Giovanni Paolo II all’Angelus della domenica, ricordò l’omicidio del prete aversano. Monsignor Riboldi, già vescovo di Acerra, noto per il suo coraggio nello scagliarsi contro la camorra, mi raccontò che era stato lui a dargli, nell’aula Paolo VI, la notizia, avuta poco prima da un giornalista. «Santità, hanno ucciso un prete dalle mie parti…». E il Papa: «Perché state qua, correte, andate a vedere e non abbiate paura». Il giorno del funerale erano migliaia le persone che si stringevano attorno alla bara. Si faceva a gara a chi la portasse sulle spalle. La messa fu celebrata in piazza, all’esterno del cimitero. Il vescovo, commosso come mai lo avevamo visto, all’omelia riprese il celebre brano di Isaia: «Forgeranno le loro spade in vomeri… Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo…». «Terra di Casale – gridò – mai più sangue… proteggi i tuoi figli… trasforma le tue armi in falci». «Per amore del mio popolo, non tacerò». Era il titolo della lettera che i vescovi campani avevano indirizzato ai fedeli qualche anno prima. Don Diana lo riprese, quando, a sua volta, volle scrivere agli abitanti di Casale. Non c’erano state, che io ricordi, azioni eclatanti nei mesi che precedettero l’assassinio. Ci fu, invece, ed è importante, l’azione seria, costante, precisa di un prete che, insieme ai confratelli, prende coscienza che è chiamato ad incarnare il Vangelo nella sua terra che, purtroppo, da molto tempo, è terra di camorra. Una camorra che tiene prigioniera la sua gente, con soprusi e angherie di ogni tipo. Don Giuseppe vuole che il termine casalesi ritorni ad indicare il popolo di cui è figlio, un popolo buono e laborioso. Vuole che sia ancora il sudore e non il sangue a bagnare e fertilizzare le campagne dell’agro aversano. «Per amore del mio popolo non tacerò». E non tacque. E lo uccisero. Ma «la voce di quel sangue ancora non si è spenta. Abele ancora piange. Ancora geme Abele. Chiunque versa il sangue di Abele porta il nome». E quindici anni dopo la Campania, nel nome di don Peppino e delle tante vittime della camorra, rialza la testa. Circa ventimila persone si sono date appuntamento al suo paese per dire che di camorra e camorristi hanno le scatole piene. In testa il cardinale Sepe e il pastore della diocesi Mario Milano. Non tacque, don Peppino, e come lui non tace, oggi, la Chiesa campana ed il meglio della società civile. Ieri sera tanti fedeli si sono riuniti in preghiera in cattedrale perché siano sconfitte la camorra e ogni tipo di prepotenza che impedisce il normale svolgimento della vita. Perché ritorni la pace ed il gusto per l’impegno e la legalità. Coloro che hanno pagato con il sangue il nostro diritto alla libertà sono veramente tanti. I loro nomi li sentiremo questa mattina, scanditi, uno ad uno in piazza Plebiscito. Don Giuseppe voleva che il termine casalesi tornasse a indicare gente buona e laboriosa.