sabato 9 dicembre 2023
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Per la definizione delle nuove regole che influiranno nei prossimi anni sulle politiche di bilancio degli Stati europei il negoziato a Bruxelles si protrae a fine anno, ma da ieri le chances di un’intesa paiono oggettivamente più concrete. E, pur essendo prematuro dare un giudizio completo, qualche indicazione si può cominciare a trarre. Il nostro ministro Giorgetti, chiamato a una prova negoziale quanto mai impegnativa, ieri ha parlato di «passi in avanti» per la fissazione di «condizioni transitorie », ma ha pure ripetuto che «piuttosto che un cattivo accordo è meglio tenersi» il vecchio Patto.

In effetti, a ben guardare tra le informazioni trapelate finora, l’Italia al momento non parrebbe ottenere granché. Una novità riguarda la flessibilità che si vorrebbe riconoscere fino al 2027, nel valutare le procedure per deficit, al costo per gli interessi sul debito pubblico, voce soggetta a dinamiche (quelle dei mercati) che esulano dalla volontà dei governi: un fattore che ci interessa molto, avendo una spesa prevista in salita a 103 miliardi di euro nel 2026. Inoltre una forma di salvaguardia dovrebbe proteggere gli investimenti ritenuti strategici, in particolare quelli per la difesa. Si fermano qui i possibili vantaggi. Tutto il resto, invece, non sembra molto positivo. A partire dall’impianto generale del Patto riformulato che, fra preamboli e sotto-vincoli, dà l’idea di essere complicato al pari di quello vecchio, alla faccia dell’auspicata semplificazione e di una maggiore trasparenza nei processi decisionali. Viene qui in mente la frase di Albert Einstein, che definiva la stupidità come la ripetizione dello stesso esperimento accompagnata da risultati differenti. E questo rischia di essere l’esito anche del nuovo Patto. All’Italia, poi, in particolare non converrebbe l’ulteriore distinzione presente nell’ultimo testo di compromesso (caldeggiata da tedeschi e “rigoristi”), in base alla quale chi ha un debito superiore al 90% del Pil dovrà avvicinarsi a un deficit annuo dell’1,5%, ben più restrittivo del 3% fissato dal Trattato di Maastricht.

Da Paese che ha già perso alcune occasioni vitali per rimettere in carreggiata i nostri conti pubblici (pensiamo innanzitutto alla finestra dei primi anni Duemila quando, dopo il via all’euro, con la forte discesa degli interessi il governo Berlusconi sprecò l’opportunità di incidere fortemente sullo stock del debito), abbiamo bisogno di limiti che ci inducano a mettere il passivo su un sentiero di abbattimento. I vincoli ipotizzati sembrano però troppo stringenti, anche se abbinati a quella discrezionalità che la Commissione Ue potrebbe mantenere nel trattare i numeri annui di bilancio con i singoli Stati (e che in passato, per i “falchi”, è stata usata a nostro favore). Più che aiutare, porterebbero ad azzerare quasi del tutto i margini del governo nazionale sulle prossime manovre annuali. Un bel problema per l’esecutivo Meloni e anche per quelli che verranno dopo. Un accordo realmente equo dovrebbe contemperare al meglio gli interessi dell’area euro con quelli dei singoli partner comunitari, pur esigendo da essi prestazioni “significative” di riequilibrio dei conti. Per l’Italia, insomma, restano dubbi sulla convenienza ad accettare simili regole-capestro anche se, sull’altro piatto della bilancia, va tenuto in conto che una mancata intesa sarebbe una perdita di credibilità per l’Ue di cui noi stessi potremmo pagare le conseguenze maggiori, da Paese “debole”. E lo siamo sempre per quell’alto debito che deve convincere tutti a un’altra conseguenza: quali che saranno le regole future (e il colore politico dei governi), è tempo di rinunciare a spese irrealistiche. Perché il debito lo si riduce innanzitutto imparando a spendere, e non a dissipare.

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