giovedì 8 ottobre 2009
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Al culmine di una sceneggiatura politico-istituzionale da Armageddon, da vero e proprio giudizio universale sulla legislatura e sui destini ultimi del Paese, la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità del "lodo Alfano". La sentenza è giunta dopo un estenuante confronto di oltre sette ore complessive all’interno della sala pompeiana della Consulta. Dettaglio temporale che sembra avvalorare i rumors di una accesa dialettica interna, filtrati a più riprese nell’immediata vigilia della decisione. Non c’è da stupirsene, vista la posta in gioco che la catena di "rilanci" polemici aveva provveduto ad accumulare sul "piatto" della partita.L’ampiezza del vaglio dice però abbastanza anche sulla complessità della scelta che si doveva compiere e sui principi da richiamare per giustificarla: aspetti che solo la lettura completa delle motivazioni potrà consentire di analizzare appieno. Ma già il riferimento, contenuto nel dispositivo reso pubblico, all’articolo 138 della nostra Carta fondamentale, sembra "riformare" in modo sensibile – e per più di un osservatore assai sorprendente – la linea seguita quando fu esaminato e bocciato il precedente "lodo Schifani". In quel caso infatti non fu mai evocata la necessità del ricorso a una norma di rango costituzionale, la cui mancanza sembra divenuta oggi decisiva per cassare la legge.Facile dunque prevedere che il livello dello scontro attorno al passaggio appena consumatosi è destinato a rimanere altissimo. Fino all’ultimo istante del resto, mentre già la camera di consiglio era in pieno svolgimento, attorno ai quindici giudici di piazza del Quirinale sono state fatte circolare parole di fuoco, quasi studiate su misura per surriscaldare un clima di attesa già ai limiti del parossismo. E anche una larga parte di quelle immediatamente seguite alla decisione, sotto forma di commenti ferocemente compiaciuti da un lato e minacciosamente delusi dall’altro, non è suonata meno allarmante.Impressiona, in particolare, il tono violento, si direbbe da regolamento dei conti personali, al quale ha fatto ricorso il leader di Italia dei valori, abbinando all’esultanza per la sentenza una nuova pesante critica alla scelta del presidente della Repubblica di firmare a suo tempo la legge ora annullata. Ancora una volta pretendendo di assoggettare un ruolo di garanzia alle proprie convinzioni personali. Uno "stile" che non a caso ha indotto più di un esponente del Pd a prendere immediatamente le distanze dall’ex pm.Altrettanto spiazzante, se non altro per l’oggettivo pendant proprio con Antonio Di Pietro, è apparsa poi la sottolineatura di Silvio Berlusconi sulla «parte» politica alla quale farebbe tuttora capo Giorgio Napolitano. Non a caso dal Colle sono giunte chiare messe a punto nei confronti di entrambi, con una speculare rivendicazione di correttezza. Ciò nonostante, facendo appello alla propria personale amarezza, il premier ha scelto di tenere il punto, proclamando «disinteresse» nei confronti del Quirinale.Come si può ben constatare, il quadro che si staglia, al termine di una giornata tra le più difficili della storia repubblicana, presenta tinte talmente fosche da alimentare paradossalmente un’unica speranza: che tutti i protagonisti sulla scena nazionale si rendano conto del rischio di avvitamento istituzionale che si sta correndo. E che in un soprassalto di saggezza si arrestino sull’orlo del precipizio che si affaccia davanti ai loro piedi.Torniamo oggi a raccogliere, purtroppo, i frutti maligni di un "bipolarismo dei veleni" troppo a lungo coltivato, nell’illusione di semplificare a ogni costo un panorama nazionale che riesce ancora a resistere alle forzature. Non è troppo tardi per invertire la tendenza. Confidiamo, malgrado tutto, nell’amore per quella «patria» che proprio ieri il capo dello Stato è tornato a evocare come una parola «da riconquistare». Nell’interesse di tutti.
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