Le memorie dei conflitti sono parte della storia dei conflitti stessi. Prestare attenzione alle prime aiuta a trarre qualche lezione sulla natura dei secondi. I conflitti, dal secondo dopoguerra novecentesco, si combattono tra avversari che non si riconoscono: non ci sono più state dichiarazioni di guerra, ma sempre più terrorismo e lotta al terrorismo. Sul campo, però, restano non solo i corpi dei terroristi e dei poliziotti o dei soldati, ma sempre più quelli dei civili. Colpire i civili è orrendamente facile e ottiene un grande impatto mediatico ed emotivo, con un vantaggio psicologico per i terroristi. Difendere i civili da un attacco o non colpirli, se si risponde militarmente con le bombe, è, viceversa, tremendamente difficile.
E l’impatto nefasto per l’antiterrorismo è tale da diventare spesso un peso assai difficile da nascondere sotto l’eufemismo dei 'danni collaterali'. Il risultato è che entrambe le parti in conflitto hanno l’interesse a disumanizzare le vittime civili, ridotte a simboli o numeri per le rispettive propagande, durante il conflitto, e una vergogna da dimenticare, nel post conflitto. La studiosa Anna Cento Bull, analizzando l’esperienza degli anni di piombo, descrive quella che definisce la 'strategia dell’amnesia' portata avanti dallo Stato italiano per oltre 40 anni verso le vittime del terrorismo. Marginalizzate e private di ruoli e di diritti fino al decennio scorso, quando acquistano centralità nel dibattito pubblico grazie all’attivismo della 'contro-memoria' dei familiari e delle loro associazioni, gli 'imprenditori della memoria', come le definisce un’altra ricercatrice, Annalisa Tota. Anche dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 abbiamo assistito a un iniziale 'silenziamento' delle vittime.
Per un anno non c’è stata neppure una lista ufficiale dei loro nomi. Il governo degli Stati Uniti ha strumentalizzato invece subito quelle morti per 'vittimizzare' l’intera nazione e aprire le ostilità della War on Terror, della guerra contro il terrorrismo. Senza dichiarazioni di guerra, ha iniziato con i suoi alleati l’occupazione dell’Afghanistan, poi quella dell’Iraq con tutta la destabilizzazione dell’area a cui abbiamo assistito in questo ventennio. Eppure, l’attività di contro- memoria dei familiari e dei superstiti era cominciata subito. Bruce Wallace, che ha perso il nipote Mitch al World Trade Center, nel 2007 racconta del suo impegno in seno all’associazione September Eleven Familes for Peaceful Tomorrow: «Qualcuno lavorava per i diritti delle vittime, altri facevano pressioni al governo per aprire una commissione sull’11 settembre per cercare la verità dietro gli attacchi. Tutti eravamo categoricamente contro la guerra che il governo Bush stava promuovendo 'in nome di quelli che sono morti l’11/9'. Un insulto a tutti gli innocenti morti quel giorno.
Ero sicuro che Mitch non avrebbe certamente voluto che altre madri, famiglie e amici provassero la stessa nostra tristezza per la sua perdita. Quanto sbagliata ci sembrava la guerra! Quanto giusto era non cercare vendetta». Non c’è da domandarsi quanto le opinioni pubbliche siano state distratte? Come non capissero quello che oggi, dopo la caduta di Kabul, è evidente a tutti, cioè che anche di fronte al peggior attentato terroristico l’unica risposta sbagliata è quella militare? Le vittime, almeno alcune, lo avevano capito subito dopo l’11 settembre e, quando non erano inascoltate, erano accusate di antipatriottismo se chiedevano pace, se svolgevano seminari dedicati al 'volto umano dei danni collaterali', se chiedevano di desecretare i passaggi topsecret del rapporto della Cia sul fallimento nella prevenzione degli attentati...
E così ancora di recente, quando chiedono indagini verso l’Arabia Saudita. Già tra le memorie della Prima guerra mondiale comincia una narrazione alternativa ai miti bellici, che scorge la 'carne da macello' dietro alla retorica sciovinista di martiri ed eroi. Tuttavia, è con la Shoah e, poi, nell’ambito dei successivi conflitti 'non convenzionali' della Guerra fredda che le vittime civili assumono centralità, acquistando un sempre maggiore consapevolezza del ruolo terzo tra i belligeranti e una capacità di analisi che è conoscenza nata dal dolore, il pàthei màthos degli antichi greci. Pensiamo a queste parole di Maurizio Puddu, dondatore di Aiviter, gambizzato dai brigatisti rossi nel 1977 e pronunciate nel 1998, quando il mondo ignorava la galassia jihadista: «Il terrorismo non è finito. Si trasformerà a livello internazionale e dovremo conviverci come nuova forma di guerra. Dobbiamo prepararci per evitare di ritrovarci sprovvisti di strumenti di prevenzione e contrasto».
Parole profetiche, come quelle di Wallace, contenute in libretti privi di ogni pregio editoriale: rimaste lontane dall’opinione pubblica, dalle università, dall’intelligence e dai decisori politici. Parole che richiederebbero spazi pubblici dove riconoscerle e valorizzarle. Sul sito della comunità ebraica di Roma, si può leggere questo comunicato del 2012: «Per non dimenticare il sacrificio di tante, troppe persone, da tempo è stato istituito l’elenco delle vittime italiane che viene letto il 9 maggio al Quirinale, in occasione del 'Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi'. In questo elenco manca, inspiegabilmente, un bambino di due anni, Stefano Gaj Tachè». Rimasto ucciso, con 37 feriti, il 9 ottobre 1982 quando un commando palestinese attaccò la Sinagoga di Roma al termine dello Sheminì Azzereth. Come il piccolo Stefano – ricordato, invece, con commozione dal presidente Sergio Mattarella, nel suo discorso di insediamento – molti altri italiani erano assenti da quell’elenco, persone colpite dentro e fuori il nostro Paese, tra 1973 e il 2001, da ogni fronte, fino a giungere ad al-Qaeda, l’11 settembre.
Pochi sanno tra quei 2.996 morti c’erano anche cittadini italiani di cui, dopo vent’anni, sappiamo solo il numero, dieci. Allora veramente, come ci ricorda ancora Tota: «Un’assenza di memoria, è spesso un atto denso di significato politico ancor più della sua presenza». Riconoscere tutte le vittime dei conflitti è quindi imprescindibile da parte delle istituzioni. Non solo per garantire loro i diritti sanciti dalle legislazioni italiana ed europea e per evitare un’ingiustificabile e vergognosa sperequazione che lascia aperte le ferite delle memorie, ma perché è una precondizione per riumanizzarle: cioè, per dare spazi e voce ai 'sommersi' attraverso i 'salvati', con tutte le difficoltà che ci ha insegnato Primo Levi, ma anche tutto il portato di conoscenze che da loro può scaturire permettendoci di provare a prevenire nuove catastrofi.
Sociologo, Università di Bergamo