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Chi alimenta il bilancio dell’Organizzazione mondiale della sanità e come sono impiegate le risorse nel mondo Pochi giorni fa, il 14 aprile, a Pasqua appena trascorsa, Donald Trump ha annunciato al mondo di avere ordinato ai propri uffici di sospendere i pagamenti all’Organizzazione mondiale della Sanità «in attesa di poter verificare se vi siano stati errori o occultamento di notizie che hanno permesso al coronavirus di diffondersi nel mondo». L’accusa, insomma, neanche troppo velata, è che l’Oms abbia taciuto l’insorgenza dell’epidemia in Cina. E pensare che solo il 24 gennaio il presidente degli Usa aveva lodato la Cina per la sua «trasparenza».
Non è chiaro se Trump abbia l’autorità per attuare ciò che ha annunciato, né si sa quali siano le sue vere intenzioni, ma di sicuro c’è che se il suo proposito venisse attuato, potrebbe mettere in seria difficoltà una struttura internazionale che gioca un ruolo fondamentale per la Sanità mondiale. Fondata il 7 aprile 1948, nell’ambito delle Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale della Sanità, in sigla Oms (o Who, secondo la terminologia inglese), ha l’obiettivo di ridurre i rischi sanitari a livello globale, di migliorare la qualità assistenziale a favore di tutti, di promuovere standard e stili di vita più salutari e più in generale di rispondere alle sfide sanitarie di livello mondiale. Una delle battaglie più importanti combattute dall’Oms nei suoi settantadue anni di vita è stata quella contro il vaiolo, un flagello che ha tenuto l’umanità sotto scacco per tremila anni e che nel solo XX secolo ha ucciso 300 milioni di persone. Grazie alla capillare campagna di vaccinazione attuata a livello mondiale, il vaiolo è stato dichiarato eradicato nel 1979. L’ultimo focolaio risale al 1977 in Somalia e fu prontamente annientato. Oggi l’Oms conta su 7mila persone che lavorano in 150 Paesi sotto la direzione internazionale localizzata a Ginevra. Da un punto di vista finanziario dispone di un bilancio biennale che per il periodo 2020–21 è stato fissato in 5,8 miliardi di dollari. Lawrence Gostin, professore di Diritto internazionale all’università di Georgetown, fa notare che si tratta di una cifra annuale di neanche tre miliardi di dollari, lo stesso ammontare speso in dodici mesi da un ospedale americano di grandi dimensioni: «Non molto – sottolinea il professore – per un’autorità che deve condurre indagini a livello planetario, intervenire nelle situazioni più critiche ed emanare linee guide valide per tutto il mondo».
Analizzando il consuntivo 2018–2019, si scopre che il 30% delle sue risorse sono state utilizzate per attività di sostegno ai Paesi meno attrezzati, affinché possano organizzare servizi sanitari migliori a beneficio di tutti. La rimanente parte è stata spesa per progetti specifici riconducibili a quattro grandi capitoli. Il primo è quello delle situazioni di emergenza che vanno dagli interventi per il contenimento di focolai infettivi, all’assistenza sanitaria di popolazioni colpite da gravi calamità. Un caso del primo tipo è stato l’intervento nella Repubblica Democratica del Congo, nel maggio 2018, quando scoppiò l’epidemia di ebola. L’Oms intervenne nella zona interessata, organizzando un sistema di individuazione precoce dei casi, fornendo materiale protettivo, allestendo strutture terapeutiche d’emergenza e formando animatori di base addetti a istruire le comunità interessate sulle norme igieniche da seguire, sulla necessità di vaccinarsi, sul modo più sicuro di dare sepoltura ai malati deceduti e su altre condotte utili a prevenire la malattia.
Quanto gli interventi del secondo tipo i più frequenti sono quelli effettuati in scenari di guerra, come quello siriano, dove anni di guerra hanno distrutto ogni forma di assistenza sanitaria. Nel 2018, a fronte di epidemie di tifo, dissenteria, morbillo, leishmaniosi, l’Oms è intervenuta con dispensari da campo, l’invio di materiale sanitario e farmaceutico, l’addestramento di operatori sanitari di base. Allo stesso modo è intervenuta in Yemen, altro Paese che vive sotto le bombe, per tamponare epidemie di colera ed altre malattie infettive. Ed è proprio la lotta alle malattie infettive un altro grande ambito di impegno dell’Oms. Malattie come Aids, epatite virale, tubercolosi, ma anche malaria che ogni anno mietono più di quattro milioni di vittime. Per non parlare del tracoma che espone a rischio di cecità più di 150 milioni di persone distribuite in 41 Paesi diversi. L’impegno dell’Oms contro queste malattie trasmissibili, anche dette “malattie dei poveri,” passa attraverso la fornitura di farmaci, vaccini, formazione degli operatori, per una spesa complessiva che nel biennio 2018–2019 ha assorbito il 18% del suo bilancio. Ma nell’ambito delle malattie infettive ce n’è una che l’Oms tratta come capitolo a sé. È la polio, di cui si hanno solo pochi casi all’anno, principalmente in Afghanistan, Pakistan e Nigeria. Ma trattandosi di una malattia invalidante ad alta contagiosità, l’Oms è determinata a debellarla completamente come ha già fatto con il vaiolo. Per questo nel biennio 2018–2019 ha destinato a questa campagna, ben il 20% del suo bilancio.
Infine l’ultimo grande capitolo di spesa è quello per la cura di maternità e infanzia, associata alla prevenzione delle malattie non trasmissibili, come diabete, disturbi cardiaci e circolatori, tumori. Malattie che anche nel Sud del mondo stanno crescendo a ritmi allarmanti complici l’inqui- namento, un’alimentazione ricca in zuccheri e grassi, la vita sedentaria, l’uso di alcolici e tabacco. Su questo fronte, largo spazio è dicato alle campagne informative e all’attività di lobby su Parlamenti e Governi affinché emanino leggi restrittive sulla pubblicità dei prodotti nocivi e introducano tasse che scoraggino il loro consumo. Nonostante il valore inestimabile del lavoro effettuato dall’Oms, le sue fonti di finanziamento sono estremamente precarie. Di fatto la sua unica fonte di entrata certa è rappresentata dalla quote obbligatorie che ogni Stato aderente (oggi sono 194) è tenuto a versare ogni anno secondo parametri particolari. La quota dell’Italia, ad esempio, è di 18 milioni di dollari all’anno, mentre quella degli Stati Uniti ammonta a 118 milioni di dollari.
A conti fatti, le quote obbligatorie coprono appena il 17% del fabbisogno odierno dell’Oms. Il rimanente 83% è coperto da versamenti volontari provenienti sia da Stati sia da privati. Più precisamente, nel biennio 2018–19 il 51% dei fondi sono stati di origine governativa, di cui il 34% di versamenti volontari. Il restante 49% dei fondi sono pervenuti da donazioni, in parte organismi pubblici come Banca Mondiale e Onu, in parte enti privati. In particolare questi ultimi hanno contribuito a più del 25 % di tutti i fondi ricevuti dall’Oms nel biennio 2018–19. E se mettiamo in fila i vari soggetti in base a quanto hanno versato sotto qualsiasi forma nel biennio passato, al primo posto troviamo gli Stati Uniti (14,6%), con 893 milioni di dollari, al secondo posto la Fondazione Bill Gates (9,7%) con 530 milioni di dollari, al terzo posto Gavi (8,3%) con 370 milioni di dollari, un organizzazione, quest’ultima, in cui convergono non solo governi e organismi internazionali, ma anche soggetti privati fra cui imprese che si dedicano alla produzione di vaccini. Una presenza, quella delle imprese farmaceutiche, che sarebbe stato meglio evitare per non esporre l’Oms a critiche. Ma così vanno le cose quando gli Stati abdicano alle proprie responsabilità.