Lo ha ricordato con delicata chiarezza il Papa ieri. Parlando ai cappellani delle carceri italiane, Francesco ha sottolineato che nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, che Dio non rimane fuori dalle prigioni, che il suo amore paterno e materno arriva dappertutto. Anche nella cella sovraffollata, persino nell’istituto di massima sicurezza, tra i pluriomicidi in regime di 41 bis. Una presenza, la sua, che non esclude il nostro impegno ma al contrario lo fa più urgente, ci richiama al dovere di rendere il sistema carcerario tollerabile, l’apparato detentivo, umano. Perché dietro le sbarre non ci sono persone di serie B ma animate dalla speranza che è quella della 'gente per bene', la medesima voglia di felicità, lo stesso spirito di libertà. In fondo, ha ricordato ancora Bergoglio, al posto loro potevamo esserci noi, perché le debolezze sono di tutti, e se noi non siamo caduti, è perché abbiamo avuto maestri saggi, famiglie capaci di farci crescere, madri che hanno pregato per noi, amici con cui confidarci. Relazioni buone, insomma.
Non basta allora chiedere, com’è doveroso, la punizione del colpevole, il suo pentimento. Occorre accompagnarlo nel cammino di liberazione, offrirgli opportunità di riscatto, braccia da afferrare, spalle su cui piangere. Giustizia di riconciliazione, l’hanno chiamata i cappellani nel loro convegno, e l’immagine richiama speranza, porte aperte, orizzonti spalancati sul domani. Da questi sacerdoti «segno della vicinanza di Cristo» ai detenuti, come li ha definiti il Papa, viene l’esempio e insieme un monito. Un invito alla vicinanza, alla comprensione, alla preghiera. La sollecitazione a visitare quei luoghi di sofferenza che sono le prigioni, per imparare la difficile arte del perdono, l’amore verso chi sembra non meritarlo, la forza di donarsi a chi non sente neppure il dovere di dire grazie. Gli stessi difetti, le medesime miserie, che percorrono la vita di chi sta fuori, spesso ostaggio di una sterile autosufficienza, incapace di lasciarsi amare, poco o nulla disponibile a ringraziare.
In fondo guardare con benevolenza a chi sta in cella, piangere, lavorare con loro, è anche un modo per uscire dalle nostre personali prigioni, segare le sbarre che ci siamo costruiti giorno per giorno. Un carcere interiore che si chiama egoismo, bramosia di potere, insofferenza verso chi è più povero e debole. Però la chiave per uscirne c’è, si trova lungo il sentiero ripido e stretto dell’umiltà, nella forza dell’ascolto, nella disponibilità a mettersi in fondo alla fila. Perché chi cammina in coda ha più tempo per alzare gli occhi al cielo, per sperimentare l’amore di Dio e la sua misericordia. Forza che libera, finestra che regala aria nuova, luce che resta accesa anche nella notte più nera, vissuta nel buio di una cella.