È doloroso registrarlo, ma la drammatica crisi economico-finanziaria greca, pur nella speranza che non si trasformi in tragedia, ha messo a nudo i limiti e gli equivoci del Trattato di Maastricht. Sottoscritto nel dicembre 1991, pose le premesse dell’euro. Moneta unica per l’intero Vecchio Continente, anche se da subito un gruppo di nazioni si dissociarono, mentre il premier inglese Margareth Thatcher accompagnava il gran rifiuto con la sinistra profezia: l’assenza d’un vero collante politico avrebbe inevitabilmente fatto esplodere le contraddizioni fra utopie ed egoismi nazionali.Quello della Thatcher era il "pessimismo della ragione". Sebbene ci si sia sforzati di dimenticarlo, infatti, il parto dell’euro avvenne col forcipe. In buona misura contro la volontà della Germania, la maggior potenza economica continentale e con una moneta, il marco, fortissima. Era però caduto il Muro di Berlino, e il cancelliere Helmut Kohl premeva per l’unificazione delle due Germanie. Il presidente socialista francese François Mitterrand, pose una condizione categorica: una moneta unica, ad arginare la risorgente egemonia teutonica. All’origine dell’euro vi era una scommessa politica. Nell’immediato Dopoguerra, Adenauer, Bidault e il nostro Alcide De Gasperi, avevano concordato che, ad evitare futuri conflitti, l’Europa doveva unificarsi. Poiché gli egoismi nazionali continuavano a prevalere, in molti ritennero che la moneta unica avrebbe agito da grimaldello, mettendo i politici con le spalle al muro. Purtroppo il processo politico è andato a rilento, la burocratizzazione comunitaria prevalendo sugli ideali. L’euro, a sua volta, si è trasformato in un "attaccapanni delle speranze" per quei Paesi, spesso aggregati senza controlli cogenti (è il caso della Grecia, mentre sono sempre più in zona rischio anche Spagna e Portogallo), al treno dell’euro che pareva fosse in grado di trascinare anche i vagoni morti.Controlli, regole. Chi andasse a rileggere gli allegati al Trattato di Maastricht, scoprirebbe l’esistenza di solenni impegni rimasti lettera morta. Azzeramento del debito pubblico corrente e contenimento di quello pregresso al 60% del Pil, ad esempio. Fra una deroga e l’altra, i controllori (in primis la Banca centrale europea) hanno fatto orecchio da mercante. Peggio, per ignavia od opportunismo, nemmeno si sono accorti che in Grecia si falsificavano i bilanci statali per coprire una "spesa facile" dissennata.Guardiamo in faccia la realtà. Il bubbone greco è scoppiato quando la Germania s’è rifiutata di dover ulteriormente sobbarcarsi il peso delle sbandate degli inadempienti. Il crac greco ha offerto alla dirigenza tedesca (col cancelliere Angela Merkel spalleggiato da buona parte dell’opposizione socialdemocratica e dalla maggioranza popolare, stando ai sondaggi) l’occasione di mettere in chiaro le sue intenzioni: chiedere, in sostanza, una nuova Maastricht. Per la riscrittura delle regole. Incuranti del rischio di un euro-frana.Certo, visto con i nostri occhi, l’atteggiamento tedesco è di un inaccettabile egoismo, insensibile a quei principi di solidarietà che sono alla base dell’Idea europea. Quindi il richiamare Berlino alle responsabilità del "fratello maggiore" (in termini economici), non è retorica. La solidarietà è un dovere primario fra le nazioni di un’Unione, oltre che fra gli individui. Tuttavia, nemmeno possiamo sottacere le devianze che si sono andate accumulando in tanti Paesi, Italia inclusa. Dove si vive al di sopra delle possibilità; nella convinzione che, una volta entrati in Eurolandia, qualcuno regolerà i conti. Se è indubitabile che la Grecia vada salvata e mantenuta a pieno titolo in Eurolandia, è altrettanto vero che, a neutralizzare la prospettiva di una crisi a effetto domino, la Banca centrale europea e i governi nazionali debbono imporre e imporsi altri modelli di comportamento. E di questo hanno da rendersi consapevoli anche le forze sociali.Per l’euro la festa è finita, e s’apre per tutti una stagione di sacrifici. Ad evitare il peggio, e dopo aver convinto la Germania che il "primo della classe" ha dei doveri cui non può sottrarsi.