Appoggiare uno dei candidati alla presidenza (Harris in questo caso), per l’editore, alimenta l’idea di non essere indipendenti. Ma c’è chi dubita che sia per ingraziarsi Trump Ci sono molti modi per fare l’editore, molti modi per promuovere, attraverso un giornale, una radio o un canale televisivo la democrazia e la pluralità delle posizioni politiche. A pochi giorni dalle elezioni Usa, Jeff Bezos, a lungo l’uomo più ricco del mondo, proprietario di Amazon e del Washington Post, ha scelto forse il più sbagliato. Non solo e non tanto perché ha deciso, caso comunque non unico tra i quotidiani Usa, di non pubblicare un endorsement (un editoriale di sostegno pubblico) già pronto a favore della democratica Kamala Harris in vista delle presidenziali. Ma perché ha giustificato quella scelta – qualcuno la chiamerebbe censura? – con motivazioni quanto meno controverse.
Scrive tra le altre cose Bezos, in una nota pubblicata lunedì online dal suo quotidiano a quattro giorni dal discusso stop all’endorsement, che gli americani non hanno alcuna fiducia nei giornalisti e nei media. “Qualcosa di quello che stiamo facendo chiaramente non sta funzionando”, ammonisce il suo comunicato intitolato “la dura verità”. Per il proprietario del Post, gli endorsement presidenziali non sono in grado di far pendere la bilancia elettorale da un lato o dall’altro. Gli elettori se ne infischiano, insomma, se il proprio quotidiano sostiene Trump o Harris. Quello che gli endorsement, fanno, sempre per Bezos, è alimentare “una percezione di non indipendenza”. Un pregiudizio, insomma, nei confronti di quel giornale o di quella tv che hanno sentito, in piena autonomia editoriale, il dovere di esporsi.
Non pubblicarne, dunque, “è una decisione di principio” perché “i giornalisti meritano di essere creduti”. Non pubblico la tua opinione, dunque, per difendere te stesso dalle tue idee. Per preservare la tua credibilità. Strano mondo, quello di Bezos, cui qualcuno potrebbe rimproverare di aver forse fiutato il vento dei sondaggi e degli affari, prima di entrare a gamba tesa contro il comitato editoriale del “suo” Post. Pur nella specificità del panorama americano, nella buriana che ha investito il quotidiano negli ultimi giorni – tra disdette di abbonamenti e dimissioni eccellenti – la discussione sul ruolo dei media, sul loro rapporto con la politica e con i lettori/elettori, si è infiammata una volta ancora, in un dibattito che investe a più livelli news e potere. A chi conviene ancora possedere un giornale o una tv? E a chi conviene ancora possedere un giornale o una tv che prenda posizione e dica davvero qualcosa?
A undici anni dall’acquisto del Post – quel Post del Watergate e di 65 premi Pulitzer – Bezos scopre dunque di possedere un giornale. E lo scopre sei anni dopo che quello stesso giornale ha scelto un motto, “la democrazia muore nelle tenebre”, adottato non a caso a inizio 2017, all’alba dell’era Trump e di un populismo arrembante che avrebbe poi portato al mai troppo condannato assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Perché la democrazia muore nelle tenebre, ma sa anche come morire alla luce del giorno, con un taglio in pagina tacciato di codardia e condiscendenza verso l’ancora presunto cavallo vincente. Non è l’unico, non è solo, Bezos, nella sua scelta. In un panorama politico americano sempre più polarizzato, sono molti i giornali che non si schierano. Nel 2008 lo fecero 92 dei 100 quotidiani Usa più diffusi, nel 2020 solo 54. Quest’anno, ancora meno. Un crollo che coincide con i problemi economici dell’industria dei media, che spera così di non alienarsi simpatie e business, né alcun possibile sottoscrittore di abbonamenti.
E dire che il Post, una via, l’aveva indicata. Nonostante il generale calo dei lettori, in questi anni in cui è emerso come il più tenace oppositore del trumpismo, i suoi abbonamenti si sono impennati fino a quota 2,5 milioni. Nel rispetto delle posizioni di ognuno, se lo si fa con onestà e con argomenti validi, prendere posizione, insomma, paga. E la democrazia, se la si maneggia con cura, magari non muore.