ABC, era iniziata così. Era il novembre 2011, freddissimi venti dall’Europa (soprattutto dalla Germania) avevano fatto schizzare il termometro impazzito del famigerato spread a 578 punti. Gli italiani, disorientati, cercavano riparo, chi non stava in fabbrica o in ufficio si rifugiava nei centri commerciali, altri affollavano i ristoranti... Eppure, la crisi c’era davvero.
Iniziò così la vicenda del governo 'tecnico', il sessantunesimo della Repubblica, l’ultimo in carica. L’Europa e i mercati finanziari si sentirono garantiti dalla figura autorevole di Mario Monti, uomo non-politico designato premier, e gli indicatori economici del nostro Paese iniziarono quasi subito a dare segni di disgelo. Si stava appiccicati agli schermi televisivi in attesa dei primi annunci programmatici e dei numeri che a poco a poco testimoniavano un lento ritorno alla normalità. Non era 'normale', invece, il quadro politico. Larghe intese, tre passi indietro per un passo avanti. I leader dei principali schieramenti per una volta non in competizione ma insieme a sostenere un governo di facce nuove, tecnici prestati alla politica, ma ben presto a pieno titolo politici.
Non sono stati rose e fiori, quei 400 giorni. Dalla stretta sulle pensioni – le lacrime del ministro prima e poi quelle dei lavoratori – fino all’Imu, prima casa inclusa, bene-rifugio delle famiglie. E all’aumento dell’Iva, nostra compagna quotidiana, spesa su spesa. Salva-Italia, spending review, scudo antispread , recessione… Tutti un po’ più tecnici, tutti un po’ più speranzosi. Ma anche tanti un po’ più poveri, un po’ più arrabbiati. I cittadini. Però le bufere passano, o si allontanano, mentre le riforme politiche e istituzionali – da tutti vagheggiate – rischiano di far sentire a lungo i loro effetti.
Così nei corridoi del Palazzo lo slancio iniziale si è via via indebolito, alla convinzione si sono sovrapposti i calcoli di bottega. Le province sono rimaste com’erano e così, più o meno, i costi della politica. Del Porcellum elettorale non si è buttato via niente. Più delusioni che riforme, della stagione di larghe intese per salvare e cambiare il Paese ai cittadini è rimasto soprattutto l’amaro sapore dei sacrifici, resi più insopportabili dalla sensazione che fossero tutti o quasi da una sola parte. Al momento del ritorno al voto, ciascuno per la sua strada. È la democrazia. La protesta si è presa la sua bella rivincita, ma così anche la vecchia politica. E abbiamo rivisto in tivù per ore protagonisti e commentatori fronteggiarsi sul filo dello 'zero virgola', 'abbiamo tenuto', 'siamo nati ieri…'.
Ma ancora una volta i mercati finanziari (domani certamente anche quelli rionali) hanno ripresentato il conto, lo spread in 24 ore dai 255 è andato a sfiorare i 350 punti, le Borse hanno iniziato una picchiata da brividi, lo scenario si è rifatto buio. Come in un assurdo e pericoloso gioco dell’oca stiamo ritornando al punto di partenza. Senza voler ipotecare scenari futuri, se non sarà di nuovo governo tecnico occorreranno intese larghe e magari anomale o inusuali. Tutto come prima o quasi, insomma, un anno e mezzo dopo. E in tivù, concluse le interminabili dirette post-elettorali, si rivede l’intramontabile gag di Totò: «E io pago...».