Sempre più frequentemente si accenna ad una possibile guerra tra generazioni. L’idea è che la generazione dei baby-boomers, quelli che oggi hanno 50 o 60 anni abbiano occupato lo scenario della società senza lasciare spazio alle generazioni a venire. I ventenni di oggi, ma anche i trentenni e quarantenni sarebbero le vittime degli “eccessi” delle generazioni precedenti. Queste non solo hanno vissuto lo sfrenamento degli anni ’60 e ’70, ma si sono giovati della restaurazione che ne è seguita, piazzandosi nei posti migliori e sottraendo ai più giovani spazio ed opportunità. In più quando questi figli del boom vanno in pensione sanno di essere gli ultimi a poter godere di un tale privilegio. Se questa è una diffusa impressione nel nostro paese in altri luoghi come gli Stati Uniti si parla di una vera e propria guerra in atto di scatenarsi. È stato un giornalista del
New York Times, Walter Kim a dare la stura a questo allarme nel 1997, ripreso poi negli anni a venire da trasmissioni della Bbc e più si avvicinava la crisi, più si parlava di un vero e proprio “odio” delle generazioni degli over ’50 nei confronti dei loro figli. Un articolo del 22 febbraio del 2010 addirittura si intitolava: «Crisi? date la colpa ai baby-boomers e non ai banchieri». Una celebre femminista americana, ora sessantenne, Lynne Segal, in un libro appena uscito
Out of Time, «Fuori tempo, i piaceri ed i pericoli dell’invecchiare» prova a rispondere a queste accuse in una disanima molto approfondita della situazione attuale dei rapporti inter-generazionali. Intanto sostiene che dietro questa guerra annunciata tra generazioni si nasconde la realtà di una divisione ricchi/poveri sempre più netta. E racconta di come non sia per niente vero che tutti i cinquanta-sessantenni se la passino bene. Moltissimi sono stati espulsi dal mercato del lavoro ed hanno perso pensione e sicurezza sociale. E molti sono stati scalzati da nuove generazioni che li hanno sostituiti nei posti di lavoro. La povertà non guarda oggi in faccia alla data di nascita.Lynne Segal però va ancora più in là. Racconta di un mondo che, pur essendosi liberato di molti pregiudizi grazie al femminismo e alle lotte per la parità, di fronte all’invecchiamento non ha saputo inventare nulla di nuovo. Sembra che il progressismo americano o anche europeo di fronte alla vecchiaia femminile prima ancora che a quella maschile abbia un imbarazzo di “vecchia” data e preferisca pensare che in fin dei conti la vecchiaia sia “solo un fatto culturale”. Insomma occorre mantenersi giovani fino all’ultimo, ma questo atteggiamento nasconde una buona dose di razzismo nei confronti degli anziani, donne o uomini che siano. La Lynne Segal riprende il pensiero di Simone de Beauvoir e l’idea che la vecchiaia sia una specie di maledizione e ricostruisce il percorso non fatto da allora fino ad oggi. Gli anziani non hanno più un ruolo preciso nella società e l’invecchiare soprattutto per le donne significa essere “fuori tempo”.Il non essere più parte del gioco dell’attrazione, del grande mercato della seduzione sostenuto dai media significa la perdita di una presenza rispetto al mondo che si muove là fuori. La Lynne Segal prova a pensare ad un ruolo diverso, soprattutto sostenuto da una concezione un po’ più ampia della sessualità e dell’affettività e a figure che stanno o hanno tracciato un percorso diverso, Harold Pinter, Angela Carter, Doris Lessing, Juliet Mitchell. Se la prende con la perdita della solidarietà tra donne che è un sintomo della incapacità di comunicazione tra generazioni di femministe e di donne. E propone un’idea di società dove la convivenza tra età diverse arricchisca le generazioni e metta in dubbio le certezze apparenti che le dividono.
Riecheggiando un bel racconto di Bioy Casares,
La guerra del maiale, dove a Buenos Aires si scatena una vera e propria guerra per eliminare i vecchi e le vecchie, (una guerra che finisce perché alcuni tra i giovani e tra i vecchi tradiscono, alleandosi), la Lynne si domanda se sia possibile davvero rispondere nella propria vita alla domanda «Quanto sono vecchio, vecchia?». Proprio perché queste stesse identità generazionali sono meno rigide nella vita di ognuno di noi e fluttiamo tra diverse età, solo se però la società non crea barriere e ghetti tra una generazione e l’altra.