Come vedere il paradiso nel fango. Questa, per chi conosce le Cinque Terre e la Lunigiana, è stata l’impressione, guardando attoniti le immagini da laggiù. E poi la conta dei morti, l’affannata ricerca di chi ancora manca, il faticoso recupero di ferrovie, strade, corrente, in zone rimaste isolate e al buio - come scagliate indietro, in poche ore, in un tempo lontano. E però subito in quei paesi la gente, gente forte, ha cominciato a scavare. Nell’originario desiderio che è più forte di ogni sciagura: per cui gli uomini, ogni volta, ricominciano.In quel fango però due cose, due, diciamo, diverse attitudini ci hanno colpito. C’è stato chi, all’arrivo di ministri e amministratori locali, ha urlato tutta la sua rabbia e indignazione, e ha tirato quel fango in faccia ai responsabili, presunti, del disastro. E nello stesso tempo c’è stato chi invece di indignarsi ha semplicemente preso una pala, ed è venuto a scavare. Molti di questi erano ragazzi e ragazze di diciott’ anni o venti, e nessuno li aveva chiamati. Sono venuti spontaneamente: come se qualcosa li avesse silenziosamente convocati. Si sono messi a lavorare di badile, a ripulire i negozi o i banchi delle chiese; un cronista ha scritto, colpito, che avevano «facce splendide». E sembravano, in quella fatica pesante, stranamente contenti. Di che? Di essere utili; di fare qualcosa di buono.Che cosa, quale interiore scambio di binari porta, davanti a un disastro, a indignarsi, oppure a venire ad aiutare? Chi lancia e insulta sceglie per sé la posizione di accusatore: a torto o forse anche a ragione, individua dei colpevoli e li vuole punire. Gli altri, i silenziosi non invitati spalatori, più che l’indignazione trovano urgente la non rassegnazione, il lavorare: metter mano alla pala, farsi venire le vesciche alle dita. Con il gusto però di riportare almeno un piccolo pezzo dei paesi sommersi, a come era.
È, questo, appunto quell’istinto originario di vita che abbiamo dentro; commuove ancora una volta però vedere come ad ascoltarlo siano ancora e sempre dei ragazzi di diciott’anni. Loro stessi si sorprendono della strana gioia che provano in quel lavorare insieme, gratuitamente. Non sono forse gli stessi figli di cui diciamo che stanno sempre davanti ai computer, che non hanno iniziativa, che pensano solo ai vestiti firmati? Ora guardateli, come lavorano nel fango. Si direbbe quasi che questa emergenza li abbia chiamati – così come quarant’anni fa l’alluvione di Firenze chiamò i ragazzi di allora, come il terremoto fece in mezza Italia nel ’78, nell’80, nel ’97 e ancora tre anni fa… Si direbbe quasi che questi figli svogliati e distratti non aspettino altro che di essere convocati da qualcuno che dica: venite, c’è bisogno di voi.
E a confronto con quelle loro belle facce, sembra una cosa da poco, un di meno, l’urlare rabbioso, la manciata di fango scagliata in faccia al "colpevole". Umanamente comprensibile la protesta, e necessaria, la giustizia: ma come è grande e umano l’essere lì, semplicemente, a scavare. Più faticoso, e più umile – i titoli dei giornali saranno sempre per chi grida. Però la silenziosa contentezza di chi "fa", porta più lontano: sia quelli che lavorano che quelli che li stanno, stupiti, a guardare.E non è questione di essere "buoni", oppure rivoluzionari; giacché il mondo, alla fine, lo cambiano davvero quelli che per ripulire il fango si sporcano le mani. E non è questione solo di quel paradiso violato, sul mare e sui fiumi; non ce lo sentiamo addosso anche noi, il fango, in questa Italia sfiduciata? Si può accusare, gridare, oppure fare. Generosamente, come quei ragazzi, di cui non lo si sarebbe immaginato. Di modo che viene un dubbio: che non si spendano, che restino a guardare, solo perché gli adulti non sanno mostrare la statura e l’urgenza della sfida da affrontare. Il dubbio che quelli che sono stati chiamati "bamboccioni", sembrino tali solo perché mancano dei padri, dei maestri veri, a chiamare.