La decisone assunta mercoledì della Corte ribalta quella convinzione collettiva e interroga laicamente sui motivi e gli esiti di un simile cambiamento di rotta. Partiamo dai motivi. Qualcosa di nuovo e di estraneo ai contenuti delle nostre leggi ormai si muove nelle corti di giustizia italiane e nelle decisioni giurisprudenziali degli anni più recenti. Basti riflettere che l’argomentazione portante delle istanze di remissione dei giudici che hanno sollevato il problema davanti alla Consulta prende le mosse da norme non di diritto interno ma dalla Convenzione europea, segnatamente dal richiamo al «diritto alla vita privata e familiare» e al «divieto di discriminazione» di cui agli articoli 8 e 14. Richiami che risentono necessariamente di visioni del mondo, letture sociali, opzioni ideologiche: cos’è infatti il diritto «alla vita privata e familiare», che, tra l’altro, nella ridefinizione giurisprudenziale italiana viene spesso indebitamente compattato in un diritto alla «vita privata familiare»? La famiglia, in altri termini, non è più un dato oggettivo, una comunità pronta ad accogliere figli, presidiata (lambita, per dirla con Jemolo) dal diritto, ma nella nuova concezione che forse – ed è bene sottolineare il 'forse' – ha sposato anche la Consulta appare strutturarsi come proiezione di ciò che i conviventi desiderano che sia. Eppure finanche la Corte europea dei diritti dell’uomo (organo che applica la Convenzione) si era fermata, in un analogo caso relativo alla legge austriaca, spiegando che sulla materia familiare le istanze individuali, e di conseguenza le sentenze che le accogliessero, non possono travalicare il «chiaro margine di discrezionalità degli Stati membri nella materia specifica». Cos’è, allora, che ha portato i nostri giudici costituzionali a ritenere il bisogno di avere figli alla stregua di un diritto fondamentale alla piena realizzazione della vita privata familiare e di un diritto di autodeterminazione in ordine alla medesima? A breve leggeremo la sentenza e lo sapremo compiutamente, ma un fatto è certo: con questa decisione, a partire dal prossimo anno, anche in Italia nasceranno bambini che, per esempio, hanno una mamma, un papà biologico sconosciuto e un altro uomo che, pur non avendo partecipato all’atto procreativo, essendo marito o convivente della madre diventerà 'di fatto' il papà 'sociale' del bambino (ma il rompicapo dell’eterologa prevede anche la possibilità che si ricorra anche all’ovulo di una madre biologica, con le conseguenze che ne derivano). Chissà se la Corte si è posta il problema se il bambino nascituro sarà d’accordo con questo stato di cose. Domanda politicamente poco corretta nella concezione della 'famiglia fai da te'. La cosa che però più imbarazza è che il diritto – a questo punto, ormai solo ipotetico – del figlio ad avere due e non tre figure genitoriali troverebbe riscontro proprio in quell’articolo 29 della nostra Costituzione, che indica quale famiglia di diritto quella società naturale fondata sul matrimonio che postula due sole figure genitoriali, e non tre, come accadrà con un padre civile, coniugato con la gestante dell’ovulo fecondato dal seme del padre naturaledonatore. Del resto, la sentenza della Corte, almeno a leggere lo stringato comunicato sulla decisione, non ha certamente inciso – né poteva farlo – su un aspetto inevitabile: consentendosi la generazione di un figlio con un donatore (o una donatrice) estraneo alla coppia, nulla potrà precludere al figlio, al pari di qualsiasi altra persona, di conoscere i dati sanitari, fisici e anagrafici del padre naturale. Ma con il diritto inalienabile a conoscere le proprie origini, e quindi la paternità naturale, la conseguente rivelazione della doppia paternità (o maternità) si rivelerà devastante – come già emerso in casi accaduti in altri ordinamenti, che sono perciò ritornati sui loro passi – in quanto agli equilibri affettivi vengono inesorabilmente minati all’interno della famiglia in cui il figlio cresce (si pensi peraltro al forte squilibrio emotivo tra due coniugi, una genitrice biologica, l’altro no) e nei confronti del padre biologico, donatore del seme, o della madre donatrice dell’ovulo con i quali è sostanzialmente reciso ogni legame affettivo pur essendo costoro in vita e pur potendo un giorno essere chiamati in causa dal figlio. C'è poi un secondo effetto che produrrà la sentenza, ed è quello che coinvolge il piano etico-sociale, rispetto al quale il Parlamento non potrà rimanere silente. L’ammissibilità della fecondazione eterologa comporta il rischio della mercificazione di gameti ed embrioni e l’effetto scontato di procedere nella pratica a una vera e propria selezione che rasenta l’eugenetica. La fecondazione eterologa è, infatti, preceduta da esami sul codice genetico dei possibili donatori e della donna ricevente: il risultato di tali esami diventa nella prassi elemento preliminare alla fecondazione e determinante nella scelta del donatore e/o della donatrice. Con l’ammissibilità di questo tipo di fecondazione si compie pertanto un passo pericolosissimo verso la selezione del genere umano, con scenari caratterizzati da probabili discriminazioni tra categorie di persone a patrimonio genetico 'selezionato' e, dunque, più efficienti, e persone fecondate naturalmente con possibili difetti genetici (appare scontato che le assicurazioni private valuteranno tale circostanza). Certo – di questo siamo sicuri – la Corte ci dirà che l’accesso all’eterologa sana il vulnus alla salute della coppia, che altrimenti non potrebbe avere figli o sarebbe costretta a recarsi in Paesi che consentono tale tecnica. Eppure la legge 40 è assai chiara: con l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita non si cura una patologia (l’infertilità o la sterilità rimarranno tali), ma si supera un ostacolo per risolvere un problema procreativo. Apparirà in questo senso fuori luogo un richiamo all’articolo 32 della Carta costituzionale, che tutela la salute individuale. La difesa della legge 40, fondata secondo il criterio del male minore sulla riduzione dei rischi di eliminazione di embrioni e di impedire fecondazioni eterologhe – pur con tutti i limiti di una legge che ha come presupposto lo sradicamento della fecondazione dall’alveo naturale dell’utero della madre –, partiva dal punto dirimente che lo scenario sul quale si interveniva era un campo dove sino a quel punto tutto era stato lecito: l’embrione infatti non riceveva espressa dignità giuridica soggettiva, come invece ora dichiarato nel testo dell’articolo 1 della legge (formalmente ancora in vigore). Sarebbe stato utile che la Corte non avesse dimenticato questo stato di cose. E, comunque, ora il Parlamento è chiamato a non farlo: diversamente si finirebbe per fare il gioco di chi vuole demolire la legge per tornare al far west preesistente, di certo assai più redditizio per molti attori del settore.
La rivelazione della doppia paternità o maternità si potrà rivelare devastante per il nascituro.
di Alberto Gambino
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