All’indomani del responso degli ispettori dell’Onu sull’uso di armi chimiche sui quartieri periferici di Damasco, che ha indotto il segretario generale Ban Ki-Moon a definire l’attacco del 21 agosto «un crimine di guerra, il peggiore e più orribile dal 1988» (da quando cioè Saddam Hussein usò il gas Sarin contro migliaia di curdi iracheni), poco è cambiato rispetto a ciò che si sapeva e che si poteva presumere: gli ispettori guidati da Ake Sellström hanno trovato tracce di gas nervino nel sangue della maggior parte delle vittime e frammenti di vettori fabbricati a Novosibirsk in Russia, che verosimilmente sono serviti a trasportare le cariche venefiche sul loro bersaglio. Il rapporto dell’Onu non rivela – non ne aveva il mandato, peraltro – chi abbia lanciato i missili, anche se il quantitativo di Sarin impiegato, le traiettorie e i vettori stessi addensano molti sospetti attorno al regime di Bashar al-Assad.Gli sviluppi della tragica guerra civile siriana ci inducono tuttavia a un paio di non meno importanti considerazioni. La prima delle quali è la crisi – ma dovremmo forse dire l’inaspettata eclissi – dell’
eccezionalismo americano, concezione geopolitica con qualche connotato etnico tratteggiata per la prima volta nel 1840 da Alexis De Tocqueville, che alludeva agli Stati Uniti come
qualitativamente differenti rispetto alle altre nazioni, cui si saldava indissolubile la ben nota dottrina del
Destino Manifesto, che incorporava l’eccezionalità americana e le riservava «il diritto di espandersi, di riscattare e di ricostruire il mondo a sua immagine». A mettere in crisi la compiaciuta eccezionalità statunitense ci ha pensato Vladimir Putin con un sorprendente quanto umiliante intervento sul
New York Times, nel quale rivolgendosi al Congresso (e non a Obama) e scimmiottando sardonico la Dichiarazione d’Indipendenza americana (
All Men are created equal), rimarcava il fatto che «l’America è una nazione come tutte le altre». Ma come siamo giunti a questo punto? Come si è arrivati a quell’accordo di Ginevra fra Kerry e Lavrov che verosimilmente non servirà a distruggere le armi chimiche siriane ma che è servito soltanto a trarre d’impaccio l’amministrazione Obama, messa all’angolo da una catena di leggerezze e di inspiegabili errori fino all’impensabile opzione militare dal piccolo impatto prefigurata dalla Casa Bianca, il cui unico risultato certo sarebbe stato l’allargamento del conflitto su scala regionale e l’impennata inevitabile della minaccia terroristica nel mondo occidentale? E qui tocchiamo il secondo punto cruciale, ovvero l’inopinato giganteggiare di Putin sul proscenio diplomatico, neanche fosse Talleyrand. Stiamo parlando dello stesso Putin che nel 2002 autorizzò l’uso di gas (di gas...) per liberare gli ostaggi del teatro Dubrovka a Mosca, causando la morte di 129 di essi, e che nel 2004 approvò l’operazione militare nella scuola di Beslan che portò alla morte di 334 ostaggi fra cui 186 bambini, per non dire delle molte ombre che si allungano sull’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja, sulle esecuzioni al polonio e sulla strage sistematica di molte delle libertà elementari che l’infragilito Occidente può ancora vantarsi di disporre.Ed è forse questo, non l’avventata minaccia di una punizione "chirurgica" del regime di Assad, il più spiazzante degli errori di Obama: quello di aver consentito
per sottrazione o se preferite per inimmaginabile inadeguatezza che ad occupare il centro della scena nel complesso scacchiere che va dall’Iran all’Egitto fosse questo autocrate cui ora guardano come arbitro autorevole e con una fiducia mai mostrata prima non solo il suo protetto Assad, ma anche le potenze regionali come l’Iran e l’Egitto, e a suo modo la stessa Israele, dove l’indice di gradimento di Obama è oltremodo precipitato, insieme alla fiducia nell’eccezionalismo americano. Unica consolazione: la brusca virata della Casa Bianca ha tolto vigore al ritorno di un clima da guerra fredda. Un bicchiere inesorabilmente mezzo vuoto, comunque lo si voglia guardare.