Da molti punti di vista, e forse ancor più di quanto fosse prevedibile, l’avvento di Marta Cartabia alla guida del Ministero della Giustizia ha fatto segnare un notevole cambiamento nei modi di gestire quel ruolo. Da non trascurare neppure il diverso uso di certe parole, pur intrinsecamente d’obbligo sulla bocca di qualsiasi ministro della Repubblica italiana. Prendiamone due: Europa e Costituzione, fino a ieri impugnate sovente (per non dire soprattutto), dentro e fuori del Parlamento, come clave per distruggere idee e progetti altrui ed esaltare i proprii, in una logora contrapposizione tra 'garantisti' e 'giustizialisti'.
Oggi Europa e Costituzione, restano ovviamente imprescindibili punti di riferimento, per la ricchezza di princìpi che ne sgorga; ben più di prima, però, sembra che se ne riscopra il valore, anche e anzi soprattutto, nei loro risvolti problematici, suscettibili di sviluppi a volte ancor più importanti e positivi, purché li si sottragga al fuoco delle polemiche strumentali. Lo si è potuto constatare già dai contenuti e dai toni del primo intervento della ministra davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati: senza anatemi, senza propositi di far tabula rasa di quanto lasciato in eredità dal predecessore, ma non senza il coraggio di mettersi in gioco con opinioni e proposte innovative, pur a rischio di impopolarità quali quelle sulle alternative al carcere e sula giustizia riparativa e, d’altra parte, con la larga disponibilità a offrire alle scelte parlamentari, su parecchi temi, un’ampia gamma di alternative, sorrette anche da raffronti non improvvisati con leggi ed esperienze straniere: così, particolarmente, su progetti di riforma scottanti quali quelli sulla prescrizione o sul Csm. C’è però un’altra parola che ha particolarmente colpito, anche per il contesto in cui è stata pronunciata dalla ministra.
È la parola «riserbo», scolpita come caratteristica essenziale della corretta conduzione di un’indagine penale, «lontano dagli strumenti mediatici ». Il tutto, proprio con richiami alla Costituzione e all’Europa: l’una, per quell’articolo 27, secondo cui l’imputato «non può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva »; l’altra, principalmente per via di una direttiva della Ue, del 2016, intitolata alla più classica «presunzione d’innocenza», così come nelle principali Carte internazionali dei diritti (ma, sia detto per inciso, la diversità dei modi di esprimere il concetto, ben nota agli addetti ai lavori e sotto più di un profilo non indifferente neppure ad effetti pratici, è del tutto irrilevante dal punto di vista qui evocato). Semmai c’è da aggiungere che la direttiva europea dà esplicito svolgimento a tutta una serie di princìpi nei quali quella presunzione deve prendere corpo maggiormente definito; princìpi che per la più gran parte, a dire il vero, possono dirsi già ampiamente attuati in Italia perché assorbiti in ciò che già è garantito dalle leggi e dalla Corte costituzionale. Non è così, tuttavia, sul punto specifico, giacché nessuno può illudersi che da noi sia scontato quanto si legge nell’art. 4 della direttiva: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche […] non presentino la persona come colpevole».
La parola «riserbo» lì non c’è ma è chiaramente implicita. Per di più, insieme a un’altra parola, non meno preziosa («discrezione»), essa si trova al centro di una tra le più storiche pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (la sentenza, del 1995, è etichettata 'Allenet de Ribemont', dal nome del ricorrente del caso di specie). Il brano che le contiene entrambe merita tuttora di venire riportato per intero: non si tratta di «impedire alle autorità di informare il pubblico sulle inchieste penali in corso, ma occorre che lo facciano con tutta la discrezione e tutto il riserbo imposti dal rispetto della presunzione d’innocenza ». Un autentico modello di comportamento per magistrati e ufficiali di polizia, nell’equilibrio con un altro caposaldo del moderno Stato di diritto: dove non è secondario il contributo che alla completezza e alla correttezza di indagini e processi può dare una stampa libera e indipendente, 'cane da guardia' di una giustizia trasparente non meno che della democrazia in generale. Ce n’è, dunque, anche per un giornalismo che sia più incline a sollecitare e a celebrare anticipazioni di condanne (magari indulgendovi specialmente quando a esserne colpito o sfiorato è l’avversario politico) più che a vigilare, senza guardare in faccia a nessuno, contro inerzie, insabbiamenti e depistaggi. Com’è invece suo diritto e dovere.