Nell’intervista al ministro Mario Mauro che
Avvenire ha pubblicato lo scorso 22 agosto c’è una frase centrale che è la spia della complessità degli argomenti che in questi giorni vengono utilizzati nella discussione sulla cosiddetta «agibilità politica» di Silvio Berlusconi. Nel chiedere un’amnistia che chiuda «quasi 20 anni di contrapposizioni», il ministro si è chiesto se esista o no in Italia un «problema giustizia» che non riguarda solo Berlusconi. E risponde: «Esiste eccome, ce lo ricorda anche la Corte di Strasburgo». Ebbene, è fuori discussione che da decenni esista in Italia un irrisolto «problema giustizia». Come
Avvenire ha più volte ripetuto, questo problema si chiama: lentezza dei processi; disomogenea effettività e grave ritardo della risposta giudiziaria; conseguente utilizzo della custodia cautelare come unica ed efficace risposta a fenomeni criminali allarmanti; conseguente inadeguatezza e sovraffollamento della carceri; diffusione indebita e non sanzionata delle intercettazioni telefoniche. Questi sono i motivi per cui l’Italia è troppo spesso condannata da Strasburgo. È chiaro però che nessuno di questi mali riguarda il processo conclusosi il 1° agosto nei confronti di Silvio Berlusconi. I suoi sostenitori non lamentano certo un’eccessiva lentezza del procedimento ma, casomai, una sua eccessiva speditezza dopo la lunga fase di primo grado. E Strasburgo non ci ha mai sanzionati per eccessiva speditezza. Né Strasburgo ha mai rimproverato al sistema giudiziario italiano una sua ventennale contrapposizione al sistema politico o a una parte di esso. Dunque, cominciamo a dire che l’amnistia che si invoca per raggiungere una pacificazione nella «guerra dei vent’anni» non ha nulla a che fare con le censure europee. E allora, i sostenitori di un provvedimento – generale o personale – che in qualche modo annulli le conseguenze della sentenza del 1° agosto dovrebbero riconoscere che, sottesa a questa proposta, c’è un’idea di fondo: che Silvio Berlusconi sia vittima di «persecuzione giudiziaria»; che il processo per frode fiscale contro di lui non sarebbe stato celebrato nei confronti di un qualunque altro imprenditore; che, se nel 1994 Silvio Berlusconi non avesse fondato il centrodestra italiano, egli non avrebbe subito tanti processi. Insomma, come si dice con linguaggio giornalistico: che nei suoi confronti ci sia stato «accanimento giudiziario». Molti lo affermano apertamente e con forza da anni. Molti non lo dicono, ma a volte fanno intendere che, tutto sommato, anche loro lo pensino. Sulla base delle mie conoscenze, io ritengo che – al netto di alcuni personalismi e censurabilissime cadute di stile – non sia così. Ma sono, ahimè, altrettanto convinto che milioni di italiani ritengano invece che questo sia vero. Così come un’altra parte di italiani è convinta del contrario: e cioè che Berlusconi sia «sceso in campo» proprio per salvarsi dai processi e che se, sino a oggi, egli ha riportato soltanto una condanna definitiva ciò è dovuto all’ostruzionismo (leggi
ad personam ecc.) che ha attuato come presidente del Consiglio. Tutto questo, è gravissimo. Perché un popolo non può vivere per anni con convinzioni tanto radicalmente opposte su un argomento così delicato: la fiducia verso i suoi giudici. Come mi è capitato di scrivere tempo fa, un’incomunicabilità fra poteri è cosa non a lungo sopportabile in un sistema democratico. Perché il magistrato ha bisogno che il popolo – nel cui nome amministra la giustizia – veda la sua indipendenza come un patrimonio comune di tutti i cittadini. Ma un simile consenso, in un sistema in cui la legittimazione del magistrato non deriva dal voto, non può ottenersi in presenza di un contrasto perenne e radicale tra magistratura e potere politico. Questo è il paradosso di tutti i sistemi democratici in cui la magistratura è indipendente ma ha una selezione e formazione di tradizione burocratica. Tale paradosso può essere sanato soltanto da un continuo e delicato gioco di bilanciamento e autolimitazione dei poteri. Ma è evidente che un simile bilanciamento presuppone una "consonanza di fondo" tra magistratura e altri poteri. Quello che i francesi chiamano lo "spirito repubblicano". Che non deve essere asservimento al potere politico, ma non può neppure permettersi di essere costante contrapposizione a esso. E dunque: come uscirne? Personalmente, non ho certezze, ma alcune idee accompagnate da tanti dubbi. Con un’unica radicata convinzione: per trovare una via d’uscita è necessaria quella che Vittorio Foa ci insegnava come la «mossa del cavallo», capace di scompaginare il gioco, abbandonando il procedere per linee rette e contrapposte. Per chi, come me, crede nella sostanziale correttezza della stragrande maggioranza dei magistrati italiani, è indispensabile cercare di capire perché – nonostante gli attacchi all’indipendenza dei giudici siano quasi sempre evidentemente interessati – tali attacchi siano sostenuti o perlomeno tollerati da una larga parte dei cittadini. Rispondere a questa domanda significa aver già trovato buona parte della soluzione. Ma, tornando alla "proposta Mauro", mi chiedo: siamo sicuri che un’amnistia sia il primo giusto passo nella direzione di questa necessaria riflessione comune? L’amnistia, come lo stesso ministro ricorda, è un provvedimento generale, che si fa per classi di reati e a beneficio di tutti i cittadini. E allora, il nostro Stato si può permettere, al fine di assicurare l’"agibilità politica" di Berlusconi e la "pacificazione" sociale e politica, di amnistiare tutti i reati di frode fiscale?
Il nodo giustizia va sciolto, e si scioglie solo con onestà. La serrata riflessione che Paolo Borgna sviluppa da par suo lo ribadisce e non ha bisogno di chiose. Ma, intelligentemente, mi provoca a una postilla. Anche a mio avviso un eventuale provvedimento di amnistia, come quello evocato dal ministro Mario Mauro nell’intervista che Angelo Picariello ha realizzato qualche giorno fa, non potrebbe mai essere il «primo passo» di una fattiva riflessione sui mali della giustizia. Piuttosto l’«ultimo passo» di un finalmente efficace e condiviso percorso di riforma di istituzioni e sistema giudiziario. In quel caso, un eccezionale provvedimento di clemenza "erga omnes" avrebbe un senso di coronamento dell’opera di ricostruzione e di riequilibrio condotta nell’ordinamento della Repubblica, e non potrebbe essere interpretato come un’operazione "ad personam" che risulterebbe insopportabile per una enorme parte dell’opinione pubblica. L’Italia e gli italiani non hanno solo bisogno di mettere una pietra sul passato, hanno urgenza di un nuovo inizio. (mt)