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Alla domanda: «Cos’è che non va nel sistema italiano della giustizia?», la risposta più comune è semplicemente «la sua lentezza». Ma una giustizia tardiva è già denegata giustizia, come scrisse il grande scienziato del diritto processuale Giuseppe Chiovenda oltre un secolo fa, nel 1904.
Segue la seconda domanda: «Quali sono le cause della lentezza?». I dati di fatto cui si fa riferimento sono di solito l’esorbitante numero dei processi pendenti e le disfunzioni organizzative. Per cui è su questi due fronti che bisogna operare e provvedere per ottenere la riduzione dei tempi processuali. Il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, inaugurando l’anno giudiziario il 29 gennaio scorso, ha illuminato almeno due aspetti dell’argomento. Il primo: le controversie tributarie pendenti in Cassazione nel 2019, oltre 52mila, superano di circa mille unità il numero di tutte le controversie civili, comprese quelle in materia di lavoro. Una così imponente massa di ricorsi fiscali denota il profondo scontento dei cittadini verso un sistema tributario ritenuto iniquo e perciò da contestare in tutti i modi consentiti dall’ordinamento, sino al giudizio della suprema Corte. Ma è anche la spia della mancanza di un previo dialogo dell’apparato amministrativo con i contribuenti volto a prevenire il ricorso alle vie giudiziarie, risultato poi tante volte inutile e sempre costoso sia per il contribuente sia per la Pubblica amministrazione.
Il secondo aspetto: richiamando le raccomandazioni della Commissione Ue sul programma nazionale di riforma italiano, è stato espressamente detto che «sarà cruciale nel processo di ripresa» eliminare le disfunzioni in favore di un nuovo modello che si distingua per efficienza operativa e rapidità. E su questa inderogabile necessità si è espresso il presidente del Consiglio Mario Draghi nelle sue dichiarazioni programmatiche al Parlamento, affermando che l’aumento dell’efficienza del sistema giudiziario civile si ottiene «attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione».
Anche se sono da condividere pienamente queste esigenze, non è da pensare che nei tempi passati il problema dell’efficienza non sia stato avvertito dai vari governi della Repubblica; comportamenti virtuosi ci sono stati anche prima di oggi. Tanto per fare degli esempi è al ministro Vassalli che dobbiamo l’attuale articolo 282 del Codice di procedura civile: dal 1° gennaio 1993 le sentenze di primo grado sono state dotate di esecutività. L’intento era chiaro: di fronte alla sentenza esecutiva meglio pagare subito che affrontare l’impugnazione di esito incerto e foriera di ulteriori pesanti oneri. E così si sarebbe evitato di appesantire il carico giudiziario. Fu, poi, con la legge 69 del 2009 che fu introdotta la sostanziosa modificazione degli articoli 91, 92, 96 del Codice di procedura civile. L’attribuzione al giudice del potere di condannare la parte soccombente al pagamento di somme di de- naro per avere agito o resistito in giudizio o senza giustificato motivo, o con mala fede o colpa grave, o senza la normale prudenza, rappresentava un significativo deterrente all’uso indebito della strada giudiziale.
Dobbiamo inoltre alla ministra Annamaria Cancellieri - col decreto legge 69 del 2013 in tema di 'Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia' - l’inserimento nel Codice di procedura civile dell’articolo 185-bis intitolato 'Proposta di conciliazione del giudice' che, nell’originale versione del decreto di cui sopra, dice testualmente: «Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, deve formulare alle parti una proposta transattiva o conciliativa». Nelle intenzioni del legislatore, sarebbero diminuite sia la proposizione di cause temerarie sia le resistenze pretestuose. Purtroppo, però, nel periodo consi- derato (1993-2013) non si era verificata alcuna decongestione del contenzioso pendente. Se ne era accorto per primo, nel 1997, il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick: egli rese noto infatti che i procedimenti civili arretrati erano 800.000. Il rimedio adottato fu disciplinato all’epoca dalla legge n. 276/97 con cui vennero istituite le 'sezioni stralcio', 1.000 i giudici onorari aggregati (i Goa) con il compito di definire gli 800.000 procedimenti in 5 anni. Le pendenze risultarono assottigliate ma non eliminate, tant’è che ancora nel 2006 quasi la metà dei Goa erano ancora in carica. Frattanto era proseguito, con numeri sempre più allarmanti, l’aumento dei procedimenti pendenti: 5.081.910 nel 2009.
Ferma l’idea che per combattere i ritardi occorresse snellire il processo e ridurne la durata, i ministri della Giustizia, dal primo governo Prodi (1996-1998) in poi, fra i compiti che si assegnavano, misero appunto l’eliminazione degli arretrati. A coltivare la speranza del recupero dell’efficienza giudiziaria fu anche Paola Severino, ministra della Giustizia dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013. Se si legge la sua relazione sull’amministrazione della giustizia del 2011 si ha notizia che per il secondo anno consecutivo si era verificato un decremento delle pendenze nel settore civile, un calo di oltre 170.000 nel 2011 rispetto al 2010 (- 3%): «una goccia nel mare degli oltre 5,5 milioni di processi pendenti ma la conferma di un’inversione di trend in costante scesa degli ultimi anni». Un ulteriore recupero si contava di ottenere con la copertura di organico e la razionalizzazione degli uffici giudiziari.
Infine, un accento decisamente ottimista fu posto sulla mediazione, pienamente operativa dal 2012, ritenuta fra i più importanti strumenti idonei a diminuire drasticamente le controversie la cui soluzione era affidata al lungo e faticoso cammino del giudizio ordinario. Purtroppo il nuovo istituto non ha dato i risultati sperati. Anzi, la mediazione, per una singolare eterogenesi dei fini, ha contribuito ad allungare la durata del contenzioso, già appesantito dalla precedente introduzione del contributo unificato. Quest’ultimo era stato pensato per finanziare il sistema giustizia e renderlo economicamente autosufficiente. In realtà, per gli utenti, il contributo unificato ha costituito sin dall’ini- zio un gravame pecuniario che ha continuato a subire forti aumenti e si è trasformato in un potente fattore deterrente, che preclude l’accesso alla giustizia specialmente per chi debba ricorrervi per piccoli importi. Tagliate fuori, soprattutto, le fasce deboli della popolazione.
Si potrebbe continuare con l’indicazione di ulteriori provvedimenti normativi, ma da quanto sin qui detto si evince chiaramente che il risultato finale è stato non l’auspicata riduzione del contenzioso (verificatasi in modesta percentuale) ma, invece, una perdita generale di fiducia che ha radicato nei cittadini la convinzione che ricevere giustizia in Italia è un forte bisogno insoddisfatto, specie per i soggetti meno abbienti. È appena il caso di aggiungere che la perdita della fiducia si è estesa anche agli investitori stranieri; anno dopo anno la sfiducia è stata ribadita nei rapporti di doing business della Banca Mondiale in cui l’Italia viene classificata fra gli Stati meno progrediti.
Un cenno, da ultimo, ai processi pendenti in relazione alla legge Pinto che ha prefissato la durata massima dei processi: per il primo grado in tre anni, per l’appello in due anni e in un anno per la Cassazione, superati i quali si entra nella sfera della durata irragionevole del processo e quindi nell’obbligo del relativo indennizzo. La verifica sul campo ha accertato che nell’anno 2017 le cause civili 'a rischio Pinto' nei tribunali italiani erano 450.000. E diventavano circa 680.000 se si sommano le ultra biennali giacenti in appello e le ultra annuali della Cassazione. Questa la grave crisi in cui versa la giustizia civile italiana, per la cui soluzione non ci sono né bacchette magiche né ricette miracolose. Pertanto, per ottenere un cambiamento di risultati così drammatici, diventa inderogabile riflettere bene sulle esortazioni riferite dal presidente Draghi.
Avvocato, già direttore di Iustitia, socio onorario dell’Unione Giuristi cattolici italiani
Sullo stesso argomento Avvenire ha pubblicato gli interventi di Paolo Borgna (16/2), Mario Chiavario (19/2) e Glauco Giostra (25/2)