venerdì 12 giugno 2009
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L’Italia non è certo in guerra, ma sa­rebbe ipocrita negare che almeno alcune centinaia di nostri soldati in Af­ghanistan sono 'al fronte' e coinvolti or­mai con una certa continuità in combat­timenti contro gli 'insorti'. Il bollettino dei feriti italiani (non delle vittime, per for­tuna) porta saltuariamente sotto i riflettori della cronaca le vicende del Paese asiati­co in cui siamo impegnati, ma anche in periodi nei quali l’informazione è ridotta la decisiva partita per il futuro di Kabul si continua a giocare sul piano militare e su quello politico. Ieri, mentre dalla regione occidentale dov’è dislocato il contingente arrivava la notizia dei tre paracadutisti della Folgore colpiti dai ribelli, a Bruxelles il ministro della Difesa afghano sollecitava i membri europei della Nato a farsi maggiormente carico dello sforzo bellico contro le mili­zie di fondamentalisti islamici che cerca­no di prendere il controllo del territorio e, come obiettivo ultimo, di rovesciare il go­verno filo-occidentale di Karzai. È tocca­to poi al ministro della Difesa Ignazio La Russa ricordare che l’escalation di scon­tri non cesserà almeno fino ad agosto, quando si svolgeranno le elezioni presi­denziali. Novantamila soldati americani e di na­zioni alleate sono schierati a fianco dei 160mila militari locali; tuttavia, a quasi ot­to anni dall’invasione del Paese per rove­sciare il regime dei taleban, la stabilizza­zione, per non dire la pacificazione, sem­bra ancora lontanissima. Inutile recrimi­nare sul tempo perso, sulla sottovaluta­zione Usa di questo fronte a favore di quel­lo iracheno, sulla difficoltà quasi insor­montabile di far convivere etnie e gruppi da secoli in lotta nonché di introdurre re­gole e stili di vita per noi consueti. Né so­no tutti uomini di al-Qaeda coloro che sa­botano le scuole femminili e contrastano l’influenza di Karzai sui loro territori a van­taggio dei traffici di droga. Tuttavia, se pre­valessero, creerebbero comunque terre­no fertile per i santuari del terrorismo in­ternazionale. È questa la posta in gioco, in un domino la cui altra tessera chiave è costituita dal vicino Pakistan, la cui frontiera con l’Af­ghanistan risulta tanto porosa quanto un crocevia di radicalismi pronti a sostener­si vicendevolmente. L’Amministrazione Obama ha da tempo dichiarato che que­sta sfida si deve assolutamente vincere. Non è un caso che sempre in queste ore il nuovo comandante delle truppe statuni­tensi abbia ottenuto maggiori poteri de­cisionali sul campo per compiere «un sal­to di qualità nelle operazioni». La missione Nato ha compiuti innegabili errori di approccio e sta pagando pure l’uccisione di civili che ha troppo spesso accompagnato i raid anti-taleban, crean­do diffidenza, se non aperta ostilità, ver­so la presenza di truppe straniere. Il so­stegno della popolazione si può conqui­stare con aiuti e opere pubbliche in un Paese povero e costantemente riportato al punto di partenza dello sviluppo dalle guerre che lo hanno devastato. Non sarà comunque un’impresa facile o rapida. Di fronte alle pressioni di Washington, l’I­talia e la Ue probabilmente dovranno pre­sto decidere se credono nell’impegno su quello scacchiere, con i relativi costi (an­che umani, va purtroppo aggiunto), op­pure se non hanno intenzione di seguire l’America nel tentativo – non necessaria­mente destinato al successo – di evitare che l’Afghanistan ripiombi nel caos. La prima ipotesi comporta nuovi invii di for­ze e accresciuti rischi. D’altra parte, rima­nere in mezzo al guado, in uno stillicidio di attentati, in un alternarsi di avanzate e di ripiegamenti, non gioverà né agli abi­tanti cui generosamente stiamo cercando di portare sostegno, né all’obiettivo geo­strategico più ampio. Di Afghanistan sentiremo ancora parlare. Sarebbe quindi meglio affrontare la que­stione in modo più esplicito e ponderato. La politica, in particolare, non ha soltan­to il compito di esprimere solidarietà alle Forze armate. Deve discutere e decidere. Kabul: ecco un tema scomodo e assai po­co frivolo, che non si può eludere a lungo.
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