Sarà inevitabile, naturale e in fondo anche giusto. Ma ricordare Gino Giugni, nel giorno della sua scomparsa, solo come il « padre dello Statuto dei lavoratori » pensiamo sia riduttivo. Soprattutto, temiamo possa finire per consegnare ' ai posteri' un’immagine falsata del giuslavorista genovese, cristallizzata a un’opera – lo Statuto, appunto – che non esaurisce il suo impegno tecnico-politico. Col rischio di perdersi nella retorica della « stagione dei diritti » , della « svolta storica » , senza cogliere la vera eredità di Giugni: l’esercizio di uno spirito critico, la capacità di guardare oltre, di cercare soluzioni al di là di schemi ideologici. Rimettendo in discussione, in qualche modo, anche se stessi e il proprio lavoro, senza pretendere di ' imbalsamarlo'. Come nel caso dello Statuto dei lavoratori, che oggi necessita di un profondo ripensamento. Quella che in realtà dovremmo tenere a mente pensando a Giugni è infatti la figura di un riformista a tutto tondo, capace di individuare soluzioni pragmatiche aderenti ai valori di fondo scritti nella Costituzione, senza però divenirne una vestale acritica. Dello Statuto, che elaborò per incarico dell’allora ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, cercò subito di evitare che diventasse, sulla spinta del clima fortemente rivendicativo di quegli anni, lo « statuto dei lavativi » . E successivamente non ebbe difficoltà a evidenziarne i limiti, le letture distorte che ne dava in particolare la giurisprudenza, a metterne in luce gli aggiustamenti necessari. Così pure, Giugni andrebbe ricordato come uno dei principali tessitori – quale ministro del Lavoro nel governo di Carlo Azeglio Ciampi – dell’accordo del luglio 1993 sul sistema contrattuale. Senza che ciò gli impedisse, appena 5 anni dopo, di evidenziare i punti di logoramento di quello stesso modello e di indicarne una serie di correttivi. Sono occorsi altri 10 anni, però, prima che buona parte di quei suggerimenti fossero inseriti nell’intesa sui nuovi contratti, firmata a gennaio da tutte le parti sociali ad esclusione della Cgil. E ancora, Giugni fu il primo a cercare di introdurre già nei primi anni 90 il lavoro in affitto e aprire l’intermediazione della manodopera ai privati. Riforme che riuscirà a condurre in porto Tiziano Treu, ma nel ’ 97 e solo grazie alla ' costrizione' di una sentenza della Corte di giustizia europea. Bastano questi pochi dati, dunque, per tratteggiare il profilo di un riformatore dallo sguardo ' lungo', che non a caso venne individuato come bersaglio dalle Brigate rosse nel 1983, preludio di un filone di attentati che porterà poi all’uccisione di Massimo D’Antona, di Marco Biagi e, più di recente, alle minacce nei confronti di Pietro Ichino. Nomi che – assieme a quelli di altri protagonisti del dibattito in materia – in comune portano la tensione al cambiamento, all’evoluzione del diritto del lavoro, non solo per adattarlo alle mutate condizioni dell’economia e della moderna produzione, ma perché sempre più effettiva divenga la tutela e la valorizzazione della persona nell’ambito del lavoro. Motivo per il quale oggi è necessario riformare lo Statuto di Giugni e arrivare a uno « Statuto dei lavori » che assicuri a tutti, davvero tutti i lavoratori, alcuni diritti fondamentali, prevedendo poi tutele e provvidenze modulabili e integrabili a seconda delle specifiche attività, del-l’età, del concorso solidale di lavoratori e imprese. Uno Statuto con nuovi ammortizzatori generalizzati, potenziati, orientati alla ricerca di nuove opportunità di impiego, e che però permettano di superare il tabù della flessibilità in uscita ( la licenziabilità), senza ' scaricare' solo sui giovani, sui precari e sui dipendenti delle piccole imprese il peso delle crisi. Uno Statuto dei lavori, che aiuti a cambiare il paradigma dei rapporti tra capitale e lavoro in chiave collaborativa, anziché conflittuale. Quarant’anni dopo, con lo stesso spirito riformista.