giovedì 11 marzo 2010
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Doveva segnare la ripresa dei negoziati fra Israele e Autorità palestinese, in stallo da quindici mesi. Ma è stata una falsa partenza che ha provocato grande imbarazzo e ha sommerso di ridicolo  il mediatore americano. Non uno qualunque ma il numero due di Obama, il vicepresidente Joe Biden, in visita a Gerusalemme per rilanciare il processo di pace. Appena concluso il suo discorso pieno d’elogi per la moratoria israeliana sugli insediamenti in Cisgiordania, viene a sapere che il ministero dell’Interno dello Stato ebraico ha approvato la costruzione di nuove case nella zona occupata di Gerusalemme est. Immediatamente dalla Casa Bianca arriva una stizzita condanna cui s’aggiungono quella del segretario generale dell’Onu e dell’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea. Anche il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, prende le distanze dal collega dell’Interno che, alla fine, è costretto a chiedere scusa. Non per la decisione presa, ma per il fatto d’averla annunciata in un momento inopportuno: durante la visita del vice di Obama.La questione delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi rappresenta uno degli ostacoli più grandi che si è sempre frapposto agli accordi di pace in Medio Oriente. La loro espansione è andata avanti a ritmo esponenziale e oggi sono più di trecentomila i residenti ebrei in Giudea e Samaria (i nomi biblici dell’attuale Cisgiordania). Sotto la pressione della comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti, il premier israeliano Netanyahu lo scorso novembre ha annunciato il congelamento per dieci mesi di nuove costruzioni nei Territori occupati, a esclusione però di 3mila abitazioni già decise in precedenza e dei quartieri di Gerusalemme est dove si continuano a demolire le case dei palestinesi. E poi ci sono le numerose deroghe alla moratoria, come l’ampliamento di varie colonie ebraiche per semplice via amministrativa. Vaghe promesse e fatti compiuti, sembra essere questa la tattica di Netanyahu.A suo favore gioca non solo l’effettiva debolezza dell’interlocutore palestinese, il presidente dimissionario Abu Mazen la cui autorità non viene riconosciuta da Hamas che comanda a Gaza, ma anche il ruolo purtroppo evanescente dell’amministrazione americana, con Obama che a parole esige il ritiro d’Israele dalle colonie ma di fatto si rassegna alla tracotanza del leader del Likud. Per salvare il salvabile si è inventato i proximity talks, i cosiddetti negoziati indiretti tra Israele e Autorità palestinese. Un vistoso passo indietro rispetto ai colloqui diretti che si sono tenuti negli anni passati. Nel 2008 Abu Mazen ed Ehud Olmert, l’allora premier israeliano costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria, erano arrivati molto vicini a uno storico accordo. E ancora oggi il negoziatore palestinese, Saeb Erekat, si dice disponibile a uno scambio di territori al di fuori dei confini del ’67, demolendo così quel che è sempre stato un dogma per Arafat.Ma più l’Autorità palestinese dà segni di arrendevolezza e più il governo israeliano si mostra intransigente. Ultimamente Netanyahu ha annunciato il restauro della «identità ebraica» di alcuni siti archeologici fra cui le tombe dei Patriarchi e di Rachele che sorgono a Hebron e a Betlemme, provocando la rabbiosa reazione dei palestinesi. C’è chi teme una Terza Intifada, aggravata questa volta dalla posizione di forza di Hamas che, nonostante la sanguinosa guerra di Gaza di un anno fa, è sempre pronto a sfidare il «nemico sionista». E’ in questo contesto che Israele si prende gioco del vice-presidente degli Stati Uniti, improbabile mediatore di un vago negoziato. Obama deve proprio battere un colpo!
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