È capitato al Tibet, sta accadendo al Myanmar oggi: due nazioni vittime di altrettanto dure repressioni militari, assurte a notorietà internazionale grazie (anche) al ruolo politico e mediatico di figure-simbolo: là il Dalai Lama, qui Aung San Suu Kyi. Il punto è che, in entrambi i casi, l’attenzione della comunità internazionale su queste terre (e sui popoli che le abitano) si piega spesso al vento delle emozioni e obbedisce – più che a una strategia di lungo respiro – ai sussulti della cronaca. Il risultato è che i regimi che stanno dietro le quinte non hanno certo la sensazione di un pressing costante e convinto della diplomazia mondiale. Come la simpatia che universalmente circonda il Dalai Lama non ha incrinato la prepotenza di Pechino, nemmeno le manifestazioni di solidarietà per Aung San Suu Kyi o per i monaci buddisti che protestavano marciando a piedi scalzi hanno intenerito il cuore dei militari birmani. Cambierà qualcosa, per l’ex Birmania, oggi che gli Stati Uniti si dicono preoccupati dalla minaccia di un trasferimento di tecnologia nucleare dalla Corea del Sud al regime del Myanmar? È presto per dirlo. Quanto dichiarato ieri dal segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, giunta in Thailandia per il vertice Asean, tuttavia, lascia sperare. Autorizza a immaginare che, ad un’attenzione intermittente, quando non episodica, alla situazione birmana, si sostituisca finalmente un monitoraggio più rigoroso ed efficace, in nome della sicurezza. Le premesse per inserire il Myanmar nell’elenco dei sorvegliati speciali ci sono tutte. Dalle immagini satellitari sarebbe emerso che i militari birmani stanno costruendo, con l’appoggio della Corea del Nord, una fitta rete di tunnel blindati e rifugi militari in varie zone del Paese, il che alimenta il sospetto che il regime nordcoreano abbia in animo di fornire tecnologia nucleare ai generali birmani. Di qui la crescente allerta americana. Dopo la nascita di inedite alleanze strategico- militari (tra Venezuela e Iraq, tra Cina e Zimbabwe e Sudan, Paesi che Washington, seppur con toni diversi dal passato, continua a considerare pericolosi), sta per nascere un nuovo 'asse del male'? Ieri la Clinton è sembrata prudente: pur lanciando un spigoloso Sos, ha spiegato che gli Stati Uniti non escludono di adottare una posizione 'costruttiva' con la Birmania se presterà ascolto alle richieste della comunità internazionale: liberazione dei prigionieri politici (sono oltre 2.000 gli attivisti imprigionati nelle carceri birmane) e fine della violenza contro la popolazione. Ben venga, dunque, un controllo più diretto e severo della politica del Myanmar. Anche perché – duole constatarlo – le sanzioni imposte dalla comunità internazionale non hanno colpito la giunta militare, che continua ad essere foraggiata da Paesi che non rispettano il boicottaggio imposto da Usa e Unione Europea. Il vero interrogativo irrisolto, sotto questo profilo, è però legato al ruolo della Cina. L’87 per cento degli investimenti esteri in Myanmar ( che hanno conosciuto un’impennata nell’ultimo anno) sono figli dell’iniziativa di Pechino. Anche Russia, Vietnam e Thailandia fanno buoni affari con i generali, ma è la Cina il vero partner economico e politico su cui il regime birmano fa affidamento. Senza un cambiamento radicale nella disinvolta politica internazionale di Pechino, anche le buone intenzioni Usa rischiano di rimanere tali.