L’orrore che arriva in prima pagina. L’orrore che esiste, anche se non arriva in prima pagina o sui
social network. L’orrore di vedere, di sapere di mattanze di uomini contro altri uomini. Mattanze per le strade. Di Milano, di Londra. L’orrore che non ci lascia in pace. Che ci richiama in una zona buia. Dove bisbigliando "ma è possibile?..." non vorremmo entrare, non vorremmo guardare. Non lo vorremmo più a seguirci, inseguirci per strada. Siamo disposti, per così dire, a sopportare una umanità brutta, una umanità ferita. Al limite anche una umanità in guerra, combattente. Ma un umanità capace di tali orrori no, non sappiamo dove metterla, come guardarla. E così come un velo di pianto copre, con tenerezza sfinita e ferita, il viso delle vittime di tali orrori – a Milano, a Londra, ovunque si perpetuano ora, in questo momento – così, sì, vorremo coprire dietro un velo il viso anche dei massacratori, degli uomini capaci di tale orrore. Vorremmo velarli, coprirli. Nasconderli dietro le certezze con cui i nostri progressi morali, civili ci rassicurano. Ma l’orrore rompe ogni sicurezza. Vorremmo non guardarlo. Dire che l’orrore appartiene semmai a qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle. A qualche zona d’ombra remota non toccata dal progresso e dalla modernità. Come se appartenesse semmai all’uomo che eravamo. Salvo poi trovare che grandi orrori sono stati e vengono compiuti proprio in luoghi e in modi moderni, e usando le armi e gli strumenti del progresso. Salvo poi trovare l’orrore che si aggira nelle nostre strade di città e metropoli o anche di paesini e borghi. E quando capita, cerchiamo subito di distogliere lo sguardo. E di ammansire l’orrore cercando di ricondurlo a cause per così dire "comprensibili", addomesticabili in più pacate analisi di genere sociologico, politico, psicologico… La grande poesia e i grandi racconti di artisti che assistettero alla nascita della cosiddetta "modernità" avevano messo in guardia da questo rischio. Avevano lanciato le loro voci, la loro profondità di artisti contro tale censura. E.A. Poe, Baudelaire, Dostoevskij, Conrad… E prima il nostro stesso Leopardi, e poi a suo modo Manzoni, avevano messo al centro di alcune loro opere la presenza del male, lo scandalo di una forza che non sembra essere mai addomesticata del tutto. Un fiore nero che non si estirpa dal cuore umano con qualche ricetta sociologica o politica. E che nessuna teoria psicologica finisce per spiegare. Un mistero. Una capacità di orrore che lascia smarriti e che attraversa tutte le epoche, ripresentandoci l’uomo che non vorremmo essere. Quegli artisti non avevano pudore di fissare l’uomo come è. E non come "dovrebbe essere". E facendo percepire l’esistenza del male non incorrevano nell’errore di molti loro (e nostri, pervicaci) contemporanei che affidavano alla retorica di "magnifiche sorti progressive" il compito di anestetizzare il dramma profondo del cuore umano. L’orrore di questi giorni – quello visibile e quello invisibile – ci mostra come in uno specchio alzato di colpo il nostro volto, individuale e comune. Lo sguardo con cui dobbiamo fare i conti, in cui germina a volte il male. Tremendo, distruttivo, come un potere, un Re maledetto a cui acconsentiamo. A furia di non voler fissare l’orrore diventiamo incapaci anche di fissare il suo contrario, il bene gratuito, l’amore. Se non ci inginocchiamo davanti a questo orrore, pregando che passi, che non ci rapisca, non vedremo nemmeno il rilievo, l’abissale mistero e l’importanza di quel che vi si oppone. Saremo meno in lotta, cioè meno uomini.