Ha ragione Mister Obama a invocare l’intervento della Fiat in Chrysler, lodandone la dirigenza «che ha saputo mettere a segno un turnaround (un risanamento) impressionante»? O sono maggiormente fondati i dubbi di Herr Verheugen, commissario Ue all’industria, che ha descritto il Lingotto come un gruppo fortemente indebitato e perciò non titolato ad acquistare il marchio Opel? All’esponente politico tedesco fa velo un evidente sciovinismo, tanto più grave visto il suo ruolo europeo che dovrebbe porlo super partes. Ma è facile cogliere, dietro quell’imbarazzante intervento, soprattutto le preoccupazioni per il futuro degli stabilimenti tedeschi di Opel e della forza lavoro impiegata. Questione centrale nei processi di riorganizzazione delle case costruttrici, finora piuttosto sottaciuta, ma sulla quale dovremmo iniziare a interrogarci anche noi. L’ingresso della Fiat in Chrysler rappresenta certamente più un’opportunità che un rischio, per l’Italia. Il gruppo torinese, infatti, porterà in dote nuove tecnologie e il suo 'saper fare' per sviluppare nuove auto a minori consumi, con un impegno finanziario limitato. In cambio, oltre ad affermarsi come protagonista planetario, ne riceverà sinergie importanti e la possibilità di vendere più agevolmente i propri modelli negli Usa. Non per nulla i sindacati italiani hanno non solo accolto positivamente la notizia, ma la Fim-Cisl ha addirittura svolto un ruolo di informazione-mediazione con i colleghi dell’Uaw, il potente sindacato americano dell’auto, al quale l’amministratore delegato Marchionne ha chiesto forti sacrifici, affinché l’operazione possa andare in porto (ieri ha detto sì il sindacato 'gemello' Caw per gli stabilimenti Chrysler in Canada). Di tutt’altro tenore sono invece le preoccupazioni per un’eventuale alleanza in Europa. Le ipotesi di un possibile accordo, prima con i francesi di PsaPeugeot, e ora addirittura di acquisto dell’Opel destano un certo allarme tra i rappresentanti dei lavoratori. Le sovrapposizioni di modelli e soprattutto di impianti nel Vecchio Continente porterebbero fatalmente alla chiusura di qualche fabbrica nel nostro Paese. E, all’assemblea Fiat di settimana scorsa, Sergio Marchionne era stato esplicito: dalla selezione sopravviveranno gli stabilimenti più efficienti, maggiormente flessibili nel poter mutare produzione, con fornitori vicini e con una logistica adeguata. Ce n’è abbastanza da far tremare due 'vecchie' glorie come le fabbriche di Pomigliano d’Arco e Termini Imerese. Sulla quale, giusto ieri, si è abbattuto l’annuncio del rinvio della produzione della nuova Lancia Y, che avrebbe dovuto essere realizzata proprio a Termini Imerese inizialmente da luglio di quest’anno, poi dal 2010 e ora rimandata al 2011. Forse. Perché la Fiat non lo ha garantito con certezza. D’altro canto, in questa fase di certezze se ne possono avere ben poche. Le uniche sono che i modelli Fiat attualmente più venduti vengono assemblati per la gran parte all’estero, mentre nel nostro Paese solo gli stabilimenti di Melfi, Cassino e in parte Torino possono godere di una certa tranquillità (ovvio, parlando sempre al netto della crisi congiunturale e della cassa integrazione che non risparmia alcuno). Il gruppo torinese sta giustamente guardandosi intorno per restare protagonista in un mercato sempre più selettivo. A breve dovrà decidere se approfittare delle quotazioni 'da saldo' di imprese come Opel per compiere un salto dimensionale, al prezzo, però, di chiusure e ristrutturazioni pesanti. Oppure se perseguire una crescita per alleanze mirate soprattutto su prodotti e piattaforme (ad esempio, già oggi la Panda, la 500 e la Ka della Ford hanno la stessa 'base'), facendo poi perno su Chrysler e Tata come partner internazionali. La scelta della strategia compete certamente al management e alla proprietà, ma le ricadute sociali riguardano anzitutto i lavoratori e in definitiva tutti noi. Probabilmente – al di là delle ricorrenti rivalità Italia-Germania – non sarebbe male se impresa, governo e sindacati cominciassero a studiare la situazione assieme.