giovedì 22 aprile 2010
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Qual è il futuro della Fiat? E, di conseguenza, quale sarà il futuro immaginabile di quelle migliaia di persone che nel gruppo automobilistico riversano fatica e fantasia, impegno e speranze? Il futuro anche di quei territori che dalla presenza degli stabilimenti ricavano benessere, stabilità, crescita?Le domande chiave che aleggiavano ieri, alla presentazione del piano di sviluppo Fiat per il 2015, in definitiva erano queste: la casa automobilistica resterà "italiana" oppure con lo scorporo delle attività auto e l’alleanza con Chrysler, il baricentro si sposterà oltreoceano, facendo di Torino e dell’Italia solo una delle periferie del mondo globale? E soprattutto: quante fabbriche resteranno attive in Italia, con quale produzione, con quanto personale? Le risposte che sono venute dal management sono state al tempo stesso rassicuranti e provocanti. Parlano di un’Italia ancora orgogliosamente industriale. Di un settore manifatturiero sposato allo stile del Made in Italy, che ha ancora molto da dire al resto del mondo ed è in grado di rispondere alla concorrenza dei Paesi emergenti. Tanto che – scampato il pericolo di essere ridotti ad attori marginali sul mercato globale, proprio grazie all’alleanza con gli americani – la Fiat punta addirittura a raddoppiare la produzione di auto nel nostro Paese: da 650mila a un milione e 400mila vetture l’anno. A moltiplicare per 2 pure le vendite con i diversi marchi. E si impegna a investire 26 miliardi di euro nelle fabbriche italiane e altri 4 in ricerca e sviluppo, razionalizzando e accrescendo l’utilizzo effettivo della capacità produttiva impiantata.Nonostante la definitiva conferma della chiusura di Termini Imerese, si tratta di un progetto positivo per il Paese nel suo complesso. Ma anche assai impegnativo, sfidante, che richiede uno sforzo non solo di gestione manageriale, ma di evoluzione complessiva del modo di produrre, di lavorare, di essere sistema-Paese. Sarà possibile restare un grande produttore di auto nel mondo non tanto se John Elkann sarà all’altezza del suo nuovo ruolo di presidente, quanto, ad esempio, se l’Italia migliorerà la propria dotazione di infrastrutture, se si accrescerà l’offerta formativa per gli operai, se i nostri Politecnici saranno in grado di preparare i migliori ingegneri. In definitiva, molto dipenderà da quanto tutti gli attori sociali si impegneranno per un obiettivo comune.L’amministratore delegato Sergio Marchionne ieri è stato esplicito: «Per realizzare "Fabbrica Italia" (il nome del progetto produttivo) è necessaria la volontà da parte di tutti e l’apertura al cambiamento». Anche perché in alternativa «c’è un piano B, che vi assicuro non è bello... la baracca si può spostare altrove», ha aggiunto, chiamando in particolare i sindacati a stringere un accordo che preveda nuova flessibilità e disponibilità a seguire le esigenze del mercato.Rispondere con una chiusura pregiudiziale da parte delle confederazioni sarebbe certo masochistico. Anche il gruppo, però, è chiamato a innovare atteggiamenti e relazioni industriali. Come premessa alla Fiat oggi va chiesta la massima responsabilità nella gestione della dismissione di Termini Imerese, per favorire produzioni diverse per quel sito e un futuro per i lavoratori.Ma l’ambizioso piano di "Fabbrica Italia" è soprattutto un’occasione unica per dare vita a un nuovo sistema di relazioni industriali partecipative. Aprendosi totalmente al confronto, progettando l’ingresso dei rappresentanti dei lavoratori in consigli di sorveglianza, sperimentando anche forme di azionariato dei lavoratori stessi (perché ad esempio non varare un aumento di capitale dedicato?) e di partecipazione agli utili. Una sfida alta davvero per tutti, che si può vincere solo insieme.
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